Il blog "Le Russie di Cernobyl", seguendo una tradizione di cooperazione partecipata dal basso, vuole essere uno spazio in cui: sviluppare progetti di cooperazione e scambio culturale; raccogliere materiali, documenti, articoli, informazioni, news, fotografie, filmati; monitorare l'allarmante situazione di rilancio del nucleare sia in Italia che nei paesi di Cernobyl.

Il blog, e il relativo coordinamento progettuale, è aperto ai circoli Legambiente e a tutti gli altri soggetti che ne condividono il percorso e le finalità.

"Le Russie di Cernobyl" per sostenere, oltre i confini statali, le terre e le popolazioni vittime della stessa sventura nucleare: la Bielorussia (Russia bianca), paese in proporzione più colpito; la Russia, con varie regioni rimaste contaminate da Cernobyl, Brjansk in testa, e altre zone con inquinamento radioattivo sparse sul suo immenso territorio; l'Ucraina, culla storica della Rus' di Kiev (da cui si sono sviluppate tutte le successive formazioni statali slavo-orientali) e della catastrofe stessa.

31/05/10

I DISEGNI DELLA SCUOLA MEDIA DI STRESA




















In rappresentanza dell’Italia, abbiamo spedito alla scuola d’arte di Novozybkov in Russia 49 disegni dei bambini di prima media (sezioni A, B e C) dell’Istituto omnicomprensivo Clemente Rebora di Stresa (Vb). I disegni parteciperanno all’edizione 2010 del concorso “Io disegno il mio mondo e ve lo regalo” promosso dalla stessa scuola d’arte e dall’organizzazione “Artisti per i bambini”.

Interessante il fatto che i bambini di Stresa nei loro disegni si sono ispirati alla mostra dei disegni del concorso stesso della Scuola d’arte (con una selezione dei migliori disegni degli anni precedenti) che è stata esposta nella loro scuola a settembre 2009, durante lo scambio culturale con i bambini di Novozybkov. Ogni bambino stresiano ha infatti scelto uno dei disegni esposti e lo ha “riprodotto” secondo la propria ispirazione e la propria fantasia.

29/05/10

LA SOIA DI CERNOBYL SI DIFENDE CON LE PROTEINE

23 anni dopo la catastrofe alla centrale nucleare di Cernobyl gli scienziati sono riusciti a capire grazie a quali mutamenti le piante si sono adattate alla vita in ambiente contaminato.

Alle mutazioni genetiche nelle piante sono stati dedicati non pochi lavori. È noto infatti come le piante mutino e come aumentino la metilazione del DNA per proteggersi dai capricci genetici. Ma oltre alla difesa del genoma, cioè delle informazioni ereditarie per le future generazioni, la pianta deve pure pensare a sopravvivere.

Lavori nei campi

Gli scienziati dell’Accademia delle scienze slovacca e dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Ucraina per primi hanno studiato in che modo l’effetto costante delle radiazioni influisca sulla manifestazione dei geni e sul mutamento della composizione proteica delle cellule delle piante. In qualità di pianta modello i biologi hanno scelto la soia “gialla”, adatta per la coltivazione nelle condizioni climatiche della parte nord dell’Ucraina.

I ricercatori hanno seminato semi di soia in due zone con identiche condizioni climatiche. Il primo lotto è stata seminato vicino al villaggio di Čistogolovka, che si trova a cinque chilometri dalla centrale di Cernobyl. Sebbene dall’incidente siano passati più di vent’anni, il contenuto di elementi radioattivi di lunga vita nelle terre di questa località è ancor oggi molto elevato. Il secondo lotto è stato seminato nel villaggio di Žukin, a cento chilometri dalla centrale di Cernobyl. Qui le terre praticamente non contengono isotopi radioattivi. Per la precisione, il contenuto di cesio-137 radioattivo vicino a Žukin è di 163 volte inferiore di quello nelle terre del villaggio di Čistogolovka.

A fine stagione gli scienziati hanno raccolto le fave di soia e le hanno analizzate in laboratorio. I semi di soia coltivati nella zona contaminata sono risultati più piccoli di dimensione e all’incirca due volte più leggeri di peso rispetto al gruppo di controllo di Žukin. Niente di sorprendente, difatti le piante spesso reagiscono a condizioni difficili con la diminuzione delle dimensioni. Tuttavia in quanto a contenuto di elementi radioattivi le fave praticamente non si differenziavano. Gli scienziati spiegano che il contenuto di elementi radioattivi nei semi dipende dal tipo di pianta. I loro risultati si spiegano semplicemente con il fatto che la soia non tende a conservare i metalli pesanti, a differenza dei cereali, i quali accumulano il cerio radioattivo, o del girasole, i cui semi coltivati in zona contaminata contengono elevati concentrati di stronzio radioattivo.

La difesa proteica

Ma la cosa principale che hanno tentato di chiarire gli scienziati è quante diverse proteine funzionali sono contenute nelle fave di soia. Vale a dire, come muta esattamente la manifestazione proteica in risposta all’effetto della radioattività dell’ambiente circostante. Dapprima hanno estratto le proteine, le hanno divise e hanno confrontato la quantità delle diverse proteine nel gruppo in esame e in quello di controllo. In tutto i biologi hanno analizzato 26 proteine di sei gruppi funzionali.

Il contenuto delle proteine corrispondenti alla crescita, al metabolismo, delle proteine energetiche e di trasporto nei lotti di Čistogolovka e Žukib praticamente non si differenziava. Tuttavia il contenuto delle proteine corrispondenti alla produzione e alla conservazione delle sostanze utili, nonché delle proteine corrispondenti alla lotta con le malattie e al rafforzamento dell’organismo vegetale, è risultato più elevato. Nell’ultimo gruppo rientra in particolare la betaina dell’aldeido idrogenizzato, che prende parte alla detossicazione del sangue nell’uomo dopo la contaminazione radioattiva. Per quel che concerne le “proteine di conservazione”, i serbatoi intracellulari degli ioni metallici e degli aminoacidi, anch’esse in presenza di contaminazione della pianta vengono attivate con metalli pesanti e altre tossine.

Gli scienziati hanno elaborato un modello schematico secondo il quale dovrebbe cambiare la manifestazione dei geni della pianta in risposta a un’elevata radioattività dell’ambiente circostante. E sperano di poterlo verificare nelle prossime generazioni di soia. I risultati già ottenuti dalla ricerca si possono consultare in un articolo (in inglese) pubblicato sulla rivista “Journal of Proteome Research”.

Data: 15.05.2009
Fonte: www.infox.ru
Traduzione: S.F.


28/05/10

GLI EROI DI CERNOBYL: UNA LOTTA CON UN NEMICO INVISIBILE


Cernobyl è una cittadina sul fiume Pripjat’ nella regione di Kiev. Nel 1970, a una decina di chilometri da Cernobyl fu costruita la prima centrale nucleare in Ucraina. Sedici anni più tardi avvenne il più grave incidente dell’energia nucleare della storia.

Che era successo un incidente alla centrale nucleare di Cernobyl l’allora soldato Igor’ Grigor’evič Tambovskij lo venne a sapere dalla cronaca dei giornali. La notizia della tragedia lo urtò profondamente.

Il capitano Tambovskij ha consacrato la propria vita al servizio nella Polizia stradale dell’Ucraina nella regione di Nikolaev. Igor’ Grigor’evič è nativo del villaggio urbanizzato di Domanevka, dove è cresciuto, ha terminato la scuola, e ancora oggi continua a lavorare come ispettore investigativo. Nel suo lungo cammino, iniziato nel lontano 1944, da semplice agente a ufficiale maggiore gli è toccato di vedere molte cose. Ma in particolare gli è rimasta nella memoria la permanenza nella zona dei 30 chilometri attorno a Cernobyl, dove fu destinato per dovere di servizio dopo l’incidente di Cernobyl.

– Quando studiavo all’allora Istituto di costruzioni navali di Nikolaev, – ricorda il liquidatore, – mi chiamarono nelle file dell’Armata sovietica. Allora la mia unità militare 3395 era dislocata nella città di Doneck. Niente presagiva la disgrazia…

Igor’ Tambovskij venne a sapere della tragedia dai giornali locali e soltanto in seguito venne destinato nella città di Vyšgorod per la riqualificazione. Proprio in quel luogo i liquidatori giungevano letteralmente da tutte le regioni del paese, s’inserivano nelle disposizioni militari generali. E già nel giugno del 1987 furono inviati nel territorio della centrale di Cernobyl.

– Quando capitai sul luogo della tragedia, – ricorda Igor’, – ebbi la sensazione di essere finito poco lontano dall’inferno. Un altro passo – e la fine. Poco tempo prima lì c’era una bella e giovane cittadina dove abitavano persone che avevano un lavoro prestigioso alla centrale nucleare, e all’improvviso… il nulla… la paura…

La centrale di Cernobyl vera e propria si trova a 16 chilometri a nord-ovest della cittadina di Cernobyl in un luogo pittoresco sul fiume Pripjat’. E in un solo istante tutto divenne appassito, rimase orfano, gli uomini vennero privati di tutto quello che li aveva circondati per molti decenni. Tutta la popolazione delle città di Cernobyl, Pripjat’ e di tutti i villaggi e centri abitati nel raggio di 30 chilometri dalla centrale nucleare furono evacuati. Questa zona divenne morta, e tale è rimasta fino a oggi, a eccezione di un numero esiguo di abitanti che di propria volontà sono ritornati nelle loro case.

Di quei lontani avvenimenti l’ufficiale ne racconta con una certa prosaicità. Probabilmente perché non considera la sua partecipazione alla liquidazione della centrale di Cernobyl come una cosa straordinaria. «Tale è il nostro lavoro», – sorride il capitano.

– Tutto quel territorio nel raggio di 30 chilometri fu accuratamente circondato con filo spinato per evitare che vi penetrasse qualunque tipo di essere vivente, – racconta Igor’ Tambovskij, – fu installato il servizio di guardia, furono collocati dei punti di controllo, e l’ingresso nella zona veniva permesso soltanto con dei lasciapassare speciali. Proprio di questo mi occupai per quei lunghi 16 mesi – della guardia e della difesa della centrale nucleare di Cernobyl.
Tambovskij tornò a casa quando scadde il termine di servizio. Nel novembre del 1988 Igor’ si era svincolato con la sensazione che i suoi compagni e lui avessero fatto la cosa giusta. I genitori e le persone vicine sarebbero stati orgogliosi di loro. Non avevano niente di cui vergognarsi. Era il loro dovere, l’avevano compiuto con onore.

Passati alcuni mesi dal ritorno a casa Igor’ Tambovskij, dopo aver un po’ “riposato” dal pesante servizio militare che gli era toccato in sorte, trovò impiego nel distaccamento Sud dell’unità militarizzata dei pompieri. In seguito, già nel 1994, ebbe inizio la sua carriera lavorativa negli organi del ministero degli Interni nella regione di Nikolaev.

Più di vent’anni ci separano dalla catastrofe di Cernobyl, che sconvolse i destini di molte migliaia di persone. Nei diversi angoli del paese vivono oggi i liquidatori di quell’incidente. Tristi e inquietanti sono talvolta i loro ricordi dei giorni lontani dell’epopea di Cernobyl. La giornata del 26 aprile è come una ferita ancora aperta nel cuore.

Un prezzo troppo alto è stato pagato dai nostri liquidatori in favore della salvezza dell’umanità. Fu quella una crudele e mortale guerra senza regole né trincee. Contro un nemico invisibile che non ha né viso né gusto né ombra, che sparava e spara pallottole invisibili.

Data: 22.04.2010
Fonte: novosti-n.mk.ua
Traduzione: S.F.

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27/05/10

A DORTMUND È INIZIATO “L’ANNO DI CERNOBYL”

«Zona, vittime, solidarietà». International Association for Education and Exchange (IBB) di Dortmund e la fondazione Mercator danno il via a una serie di iniziative paneuropee in avvicinamento al 25° anniversario del catastrofico incidente alla centrale nucleare di Cernobyl.

Il 26 aprile del 1986 è entrato nella storia della civiltà come un momento tragico e di svolta. Lo scoppio alla centrale di Cernobyl è stata una catastrofe per l’intera Europa e ha obbligato il mondo a riflettere seriamente sui limiti dell’ammissibile e del possibile nella lotta per il progresso tecnico-scientifico.

IBB di Dortmund e la fondazione Mercator hanno intenzione di riempire l’anno che precede il 25° anniversario di Cernobyl con un complesso di iniziative chiamate a focalizzare l’attenzione degli europei, e prima di tutto dei giovani, sulla situazione dei territori che sono rimasti vittime della catastrofe.

La direttrice della filiale dell’IBB di Minsk Astrid Sahm ha comunicato che in Bielorussia stanno già effettuando una selezione e l’archiviazione dei ricordi dei “liquidatori”. È una cosa necessaria, in quanto le conseguenze di Cernobyl fino a oggi sono dolorosamente percettibili, ha sottolineato Astrid Sahm. Si prepara la pubblicazione dei ricordi delle vittime della catastrofe e della storia di alcuni dei 400 centri abitati scomparsi nella “zona”.

Cernobyl non va dimenticata

«Cernobyl è diventata per noi sinonimo di terribili conseguenze perfino nell’utilizzo civile dell’energia nucleare», – fa notare Peter Junge-Wentrup, uno dei dirigenti di IBB, presentando a Dortmund il progetto denominato “25 anni dopo Cernobyl – le strade della cultura transnazionale della memoria”.

Spiegando la sostanza delle iniziative in programma, Wentrup ha fatto notare che la catastrofe è diventata, da un lato, un punto di svolta nell’atteggiamento delle persone verso l’energia nucleare, e dall’altro l’inizio di un movimento di solidarietà mai visto prima d’allora degli europei nei confronti della popolazione della Bielorussia e dell’Ucraina. Dal desiderio degli europei di aiutare i bambini di Cernobyl è cresciuta e persiste ormai da un quarto di secolo una rete di organizzazioni partner informali in Germania, Italia, Irlanda, Gran Bretagna, Polonia, Olanda.

«Cernobyl nella maniera più drammatica ha dimostrato che le catastrofi ambientali non conoscono confini nazionali e ideologici», – ha dichiarato Bernhard Lorentz, presidente della fondazione Mercator. Questa organizzazione è intenzionata a sostenere le iniziative di IBB, vedendo in esse la possibilità di dare agli abitanti della Bielorussia una miglior comprensione dei problemi d’interdipendenza legati al cambiamento del clima, all’ambiente e al fabbisogno energetico.

L’anno della memoria di Cernobyl

“L’anno di Cernobyl” è stato inaugurato il 23-24 aprile 2010 a Dortmund, dove ha avuto luogo un incontro organizzativo dei rappresentanti delle diverse “iniziative per Cernobyl” esistenti in Germania e negli altri paesi europei.

In luglio a Minsk si terrà il seminario internazionale “Cernobyl: monito per l’Europa – conseguenze per la Bielorussia”. A esso parteciperanno i vincitori dei concorsi nazionali dei lavori letterari.

In autunno-inverno lo stesso seminario si svolgerà anche su Internet.

Tra gennaio e aprile 2011 è in programma una serie di incontri con i liquidatori.

A gennaio 2011 uscirà il libro “25 anni dopo Cernobyl – la solidarietà europea e la cultura della memoria”.

Dal 17 al 20 aprile 2011 all’IBB di Minsk si dovrebbe tenere una conferenza internazionale su Cernobyl.

Dal 20 al 27 aprile 2011 i vincitori dei concorsi nazionali saranno invitati a Berlino al seminario “Cernobyl nella memoria degli europei”.

Si concluderà “l’anno di Cernobyl” a Berlino il 26 aprile 2011 con un’iniziativa dal nome “Cernobyl – una prova per l’Europa”.

Data: 26.04.2010
Fonte: www.dw-world.de
Autore: Viktor Agaev
Traduzione: S.F.

26/05/10

UNA MISSIONE D’APRILE DI 24 ANNI FA
















Il pompiere Ivan Gerc fu l’unico tra i 200 invalidi di Cernobyl della regione del Zakarpet’e (Ucraina) ad essere stato colpito da sindrome da irradiazione acuta


Con quest’uomo alto, robusto, abbiamo conversato, purtroppo, in una corsia d’ospedale – per l’ennesima volta infatti si trovava in riabilitazione. È invalido del II° gruppo, in seguito a una doppia permanenza non soltanto nella zona di Cernobyl, ma nel fulcro dell’inferno di quella tragedia planetaria. Dei quasi duecento invalidi di Cernobyl del Zakarpat’e soltanto a lui è stata diagnosticata una sindrome da irradiazione acuta.


Nonostante i tormenti disumani sopportati, le sofferenze fisiche e morali, infine l’invalidità, Ivan Gerc non ha perso la sua gentilezza, affabilità, voglia di vivere. È inoltre attivo nel lavoro sociale, ha ottenuto un diploma superiore, si è messo su una casa, tutte le sue forze le dedica alla famiglia, rispetta gli amici e ha grande stima dei colleghi.


Tratti biografici. Ivan Ivanovič Gerc è nato il 21 giugno 1957 nel villaggio di Lochovo in provincia di Mukačevo (oggi Ucraina). Terminati otto anni di scuola nel villaggio natio, frequentò l’istituto tecnico di Mukačevo, ottenendo la professione di falegname ebanista per la fabbricazione di mobili artistici. Tra il 1975 e il 1977 fece il servizio militare. Dopo una missione d’urgenza, prestò servizio alla Sezione professionale dei pompieri n. 4 di Mukačevo. Dapprima fu addetto alla respirazione, più avanti ispettore subalterno, e infine autista. Dopodiché ricevette l’attestato e passò alla Sezione militare dei pompieri n. 4 di Mukačevo (era avvenuto un processo di militarizzazione delle unità dei pompieri). Ivan, un ragazzo sveglio e abile con la tecnica, cominciò a lavorare come autista di tutti i mezzi speciali dei pompieri: autopompa, di collegamento e comunicazione, tecnici, schiumanti, spargipolvere, con scala automatica... Il sergente Gerc era stimato come persona e apprezzato come bravo specialista. Tanto più che Ivan cercava di essere un esecutore diligente e un pompiere modello, in quanto in quella stessa unità prestavano servizio suo padre e il suo futuro suocero.


Quella spedizione d’aprile alla vigilia delle festività di maggio, che si festeggiavano allora con allegria e con tanta gente, la sua famiglia non l’avrebbe mai dimenticata.


– Il 28 aprile arrivò l’ordine militare: partire immediatamente per Kiev per dei corsi d’emergenza, – ricorda Ivan Gerc. – Il biglietto ce l’avevano già prenotato… La mattina del 29 aprile il generale Desjatnikov, allora a capo del servizio antincendio della Repubblica Sovietica Ucraina, schierò sulla piazza militare di Kiev 350 pompieri che erano stati inviati da tutta la repubblica.


«A Cernobyl c’è stato un piccolo incendio. Bisogna dare il cambio ai colleghi» – brevemente, distintamente, ma con un certo dispiacere nella voce disse il generale. Tutti erano stati trasportati da Kiev con dei pullman. A Pripjat’ vennero divisi in gruppi e squadre. Ivan Gerc ricevette la “scala” e fu assegnato alla squadra moscovita che lavorava alla decontaminazione della città.


– Il mio compito era semplice: trasportavo la scala, stendevo le manichette antincendio, e gli altri pompieri disinfestavano i palazzi, – racconta Ivan Ivanovič. – Per il Giorno della Vittoria (il 9 maggio) Pripjat’ doveva essere ripulita dalla contaminazione radioattiva – tale era il compito che ci avevano assegnato… Come comunista e ventinovenne padre di due bambini assieme agli altri volontari trasportavamo nel cimitero mezzi e attrezzature altamente radioattivi. Venivano trasportati in un’enorme fossa agganciando saldamente due-tre veicoli insieme, venivano “spostati” da pesanti carri armati con cingoli larghissimi e immediatamente venivano ricoperti di calcestruzzo alla periferia dei villaggi di Burjakovka e Čistigalivka. Ci mettevano in guardia… Ognuno aveva i cosiddetti “accumulatori”. E ogni volta a fine giornata noi davamo gli indicatori. Alcuni nel complesso arrivavano a 50-60 roentgen. Io fui l’unico tra quelli della regione del Zakarpat’e ad essere stato colpito da sindrome da irradiazione acuta – “Mi presi” ben 112 roentgen!... La dose mortale è di 100. Quella fu la mia prima “tempra” di Cernobyl, che durò dal 29 aprile all’8 maggio 1986.


Dopo quella missione nella zona, Gerc venne mandato a Kiev, all’Istituto di ematologia dell’Accademia delle scienze mediche dell’Ucraina. Il giovedì e il venerdì fece le flebo. Per il week-end se ne andavano tutti. Se ne andò anche Ivan, dal fratello che viveva nella capitale. Tornato indietro il lunedì, il suo letto era già occupato. Andò un po’ in giro, si diede da fare, s’interessò – ma nessuno gli prestava attenzione. Salì su un treno e tornò a casa. Fisicamente era sano, candidato a istruttore di ciclismo, campione regionale nel 1973-74.


– Che cosa sentivo allora? Avevo un forte raschio alla gola, periodicamente perdevo conoscenza, una forte debolezza, – ricorda oggi Ivan Gerc. – Ma in qualche modo lo sopportai, pareva che tutto fosse finito… E forse me la sarei anche cavata. L’organismo giovane, il cibo casalingo, l’atmosfera familiare, la natura magnifica – tutto favoriva la guarigione.


Ma all’unità dei pompieri dove prestava servizio Ivan Gerc verso la metà di luglio del 1988 giunse una richiesta precisa: per la liquidazione delle conseguenze dell’incidente di Cernobyl inviare un determinato numero di uomini d’età adeguata. Tacitamente vanno bene i volontari. Se non ce ne sono – in maniera coatta. Il nostro collettivo decise di affrontare la cosa “informalmente”: estrarre dei cartoncini tra cui alcuni con l’annotazione “se tiri fuori questo – vai”. Ivan Gerc lo tirò fuori… E così dal 20 luglio al 21 agosto del 1988 prestò servizio proprio alla centrale nucleare di Cernobyl.


– Al quarto blocco ci lavorai 320 ore, – dice Ivan. – Mi chiesero in aggiunta di costruire davanti all’unità antincendi una piattaforma chiusa affinché da lì si potesse innaffiare il piazzale e lavare i mezzi tecnici con la manichetta idrante. Allora mi conferirono la medaglia “Partecipante alla liquidazione dell’incidente alla centrale di Cernobyl”. Mi avevano anche candidato per l’ordine, ma per qualche motivo non me lo diedero… Dopodiché tornai a casa. Mi concessero un mese di ferie. E quando sembrava che le cose stessero lì lì per migliorare, all’improvviso ebbi un infarto. Fu terribile. Per nove mesi fui costretto a rimanere in malattia: al lavoro non mi permettevano di andare, e io mi dividevo tra gli amici e la guarigione. «No» – diventavano sempre più implacabili i medici. Mi curavo un po’ a Mukačevo, un po’ a Užgorod, mi mandarono al sanatorio “Karpaty”…


Lo stato di salute di Gerc non migliorava, piuttosto il contrario… Lo mandano per delle consultazioni a Kiev, all’Istituto di patologia delle radiazioni, dove giunsero a una conclusione poco consolante: sindrome acuta da irradiazione. Da lì lo inviano al policlinico del Ministero degli Interni.


La salute stava abbandonando il giovane liquidatore. Dolori insopportabili lo tormentavano quasi ogni istante. I medici stabilirono un’invalidità del secondo gruppo collegata alla liquidazione delle conseguenze dell’incidente alla centrale di Cernobyl. E allora, proprio agli inizi degli anni Novanta, lui s’impegnò a cercare i documenti che attestassero la sua permanenza in quella zona nefasta. Da nessuna parte niente! Il verdetto fu duro e irrevocabile: «A causa dell’elevata radioattività tutti i documenti di quel periodo, tra cui anche i Suoi, sono stati annientati». Che fare? E nonostante tutto la pensione gli venne assegnata – 144 rubli, il minimo per quei tempi. Il diploma d’onore del ministro e il distintivo di liquidatore, ancor oggi considerati segno distintivo di coraggio, valore e dedizione per un pompiere, nonché la conferma del comandante dell’unità, avevano fatto il loro effetto: si riuscì a ristabilire la verità. Ma questo non migliorava a salute...


– Nel 1991 ebbi una paralisi della parte sinistra, – ricorda Gerc. – Subii due ictus e un infarto… Su di una sedia a rotelle mi trasportarono in Germania. Eravamo una decina di invalidi ucraini di Cernobyl, ci portarono con dei pullman a Monaco di Baviera. La diagnosi fu confermata: patologia da irradiazione dell’encefalo. Da là ci spedirono a Kiev, all’Istituto di neurochirurgia. Là fui sottoposto a 14 cicli di cure: ogni tre-quattro mesi tutto ricominciava da capo. Dopo il terzo ciclo di cure andai di nuovo a Monaco di Baviera. Per la seconda volta. Servivano 57 mila marchi tedeschi per l’operazione. Quei soldi non riuscimmo a trovarli né io né il nostro governo. Fui costretto a rinunciare. Venne un professore da Berlino e allargò sempicemente le braccia. Uno screening supplementare – e mi ritrovo di nuovo a Kiev. Nella capitale, mi curai dal celebre professor Vinnickij e dalla direttrice della clinica n. 10 Irina Stepanenko. Grazie a queste due persone vivo ancora su questa terra…


Nel 1992 nascosi la mia invalidità – volevo lavorare. Mio padre e mio suocero al lavoro, un bel collettivo, e a me toccava andare in pensione… Ma in ogni modo dopo un po’ di tempo venni rimosso dal lavoro.


– Come va ora? A partire dal 1993 per circa tre anni le mie condizioni furono molto gravi. Ero costretto ad andare due-tre volte all’anno a curarmi a Kiev. La protezione sociale dei pompieri mi pagava i soggiorni in sanatorio… Non potevo camminare. Nel 1996 migliorai: cominciai a camminare, si rimise il fianco sinistro… Anche a livello morale questo mi rincuorava, mi ridava forze. Nel 1997 venni eletto presidente della sezione provinciale di Mukačevo di “Sujuz Cernobyl” dell’Ucraina. Lavoro con questa carica fino ad oggi, tuttavia periodicamente sono costretto a recarmi nella capitale dalla dottoressa Stepanenko all’Istituto di microneurochirurgia.


Ivan Ivanovič è una persona perseverante. Ha terminato per corrispondenza l’Istituto tecnico forestale di L’vov. Ha due figli adulti i quali, come il padre, hanno ricevuto un’istruzione superiore. Vive Gerc nel villaggio di Russkoe, in provincia di Mukačevo, nella propria casetta, coltiva un giardino e l’uva – per farla breve, si sforza di vivere in maniera completa, attiva e ricca di idee.


Data: 26.04.2010

Fonte: eco.rian.ru
Autore dell'articolo: Vasilij Nit'
Traduzione: S.F.


Link al pdf dell'articolo: Una missione d'aprile di 24 anni fa

25/05/10

SVETLANA ALEKSIEVIČ: CERNOBYL RIMARRÀ PER SEMPRE NELLA STORIA DELL’UMANITÀ

La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič in un’intervista a Deutsche Welle ragiona sulla percezione e sulla presa di coscienza da parte della società bielorussa della tragedia di Cernobyl, delle sue conseguenze e lezioni.

Secondo la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič nella società bielorussa non avviene una profonda comprensione della tragedia di Cernobyl e delle sue lezioni. La causa di questo sta nella politica delle autorità, mirata a occultare e a cancellare dalla memoria Cernobyl e le sue conseguenze.

– Dando uno sguardo indietro, sono passati oramai più di 20 anni, come definirebbe lei ciò che è diventata Cernobyl per la società bielorussa?

– Io penso che Cernobyl per i bielorussi sia una tragedia che vivrà tanto quanto vivranno gli elementi radioattivi con il maggior periodo di dimezzamento. Il mio libro “Preghiera per Cernobyl” lo scrissi affinché si conservasse la memoria – i primi giorni della tragedia, come venne percepita, cosa avveniva dentro di noi.
Mi era sembrato che quello che era successo avrebbe finalmente obbligato le persone a uscire da quel sonno letargico nel quale si trovava la società postsovietica. Che le persone si sarebbero messe a riflettere sulla libertà, sulla responsabilità nei confronti dei propri figli, nei confronti della loro vita stessa. Che un prezzo terribile sarebbe stato sì pagato per quest’apertura della mente, ma che comunque sarebbe arrivata.
Oggi invece, passati più di 20 anni, posso dire che noi stiamo perdendo persone, stiamo perdendo la salute della nazione, il fondo genetico, ma la sottomissione insita nel mio popolo, quella è rimasta. Questa terribile catastrofe non ha malgrado tutto risvegliato le persone, non le ha obbligate a riflettere sulla propria vita. I bielorussi sono come prima sottomessi al corso della vita, alle circostanze, al potere totalitario.
Non so neanche quando saremo capaci di parlare seriamente di questo. Parte della responsabilità è da imputare anche agli intellettuali – sono vent’anni che parliamo di tutto tranne che di Cernobyl. Non parliamo di questo problema così come se ne dovrebbe parlare. Cernobyl resterà per sempre nella storia dell’umanità, e a partire da queste parole saremmo potuti entrare nella cultura mondiale, ma non l’abbiamo fatto.

– Come valuta la politica delle autorità bielorusse riguardo al problema di Cernobyl?

– Penso che qualunque potere autoritario, tanto più un potere povero (in Bielorussia non ci sono né petrolio né gas come in Venezuela), si comporti a questo modo. Se prima la gente riceveva una razione dal punto di vista dei beni materiali, adesso questa razione la riceve dal punto di vista della verità.
La società non sa che cosa sia effettivamente accaduto al potere, al contrario, tutto il meccanismo dello stato lavora per l’oblio, per fare in modo che ci si dimentichi delle cose passate. Perché se le gente non dimentica, allora si metterà a fare domande – perché non ci proteggono, perché le nostre cliniche sono miserrime, perché dobbiamo curare i nostri bambini al’estero.
È stato in carcere, e ora vive fuori della Bielorussia il professor Jurij Bandaževskij, che ha effettuato ricerche sulle conseguenze dell’incidente. È morto, letteralmente infrangendo il cuore contro questa sordità governativa, il professor Vasilij Nesterenko, che aveva tentato di influire in qualche modo sulla politica governativa riguardo al problema di Cernobyl – almeno per raccogliere una banca dati e inculcare nella gente che bisogna proteggersi. È stata sbaragliata la fondazione “Detjam Cernobylja” di Gennadij Gruševyj, che molto aveva fatto affinché i bambini bielorussi facessero le cure all’estero. Tutto questo, per farla breve, è stato annientato.
Per quel che riguarda le iniziative umanitarie europee, anch’esse a poco a poco si vanno estinguendo, si sono stancati di sbattere la testa contro il muro dell’indifferenza governativa, quando alla frontiera gli fanno pagare dei soldi per il fatto che dall’estero portano in Bielorussia medicinali e attrezzature sanitarie.

– Lei aveva già parlato dell’indifferenza dei bielorussi, dell’apatia. Cionondimeno, hanno luogo nella società dei processi di presa d coscienza di questa tragedia?

– Lo stato ha messo in azione tutti i meccanismi dell’oblio. Per fare solo un esempio, il mio libro è uscito in 23 paesi nel mondo, ma non in Bielorussia. Là viene addirittura accolto come un libro dannoso. Piuttosto, l’appello delle autorità è: gente, fate ritorno nella zona di Cernobyl e abitateci. Io ritengo che sia una cosa assolutamente irresponsabile, ma la società non reagisce a tutto questo.
Il silenzio, l’assenza di un’opposizione civile per me come persona e come artista sono una sconfitta. Ed è effettivamente difficile farsi coraggio per credere, per fare e scrivere qualcosa. Non so perché oggi la gente non noti l’enorme quantità di cose che dovrebbero cambiarci.
Penso che non sia solamente paura davanti al potere. Su quest’indifferenza della società nei confronti di se stessa ci sarebbe molto da dire. Cernobyl è uno dei temi su cui abbiamo semplicemente chiuso gli occhi e crediamo di esserci nascosti, d’averla scampata. Nella realtà, ci toccherà rispondere di questo.

Data: 06.04.2009
Fonte: www.dw-world.de
Autrice dell’intervista: Marina Nikitič
Traduzione: S.F.


24/05/10

A CERNOBYL ERA COME AL FRONTE

Professore, dottore in scienze mediche, Jurij Grigor’ev è direttore del laboratorio di radiobiologia e igiene delle radiazioni non-ionizzanti del Centro federale medico-biologico A.N. Burnazjan, insignito del Premio statale dell’URSS, presidente del Comitato nazionale russo per la difesa dalle radiazioni non-ionizzanti.



Sono passati 24 anni da una delle più grandi catastrofi tecnologiche nella storia dell’umanità. La distruzione del quarto blocco energetico della centrale nucleare di Cernobyl ha portato alla contaminazione dell’atmosfera, alle malattie e alla morte di persone. Il professor Jurij Grigor’ev, allora vicedirettore dell’Istituto di biofisica e membro della Commissione governativa appositamente creata per quell’emergenza, ha raccontato al giornale “Vzgljad” come loro curavano le persone colpite durante la liquidazione delle conseguenze dell’incidente.

– Jurij Grigor’evič, in quanto testimone oculare, cosa può raccontare di quell’avvenimento?

– La mattina del 26 aprile mi chiamarono all’ospedale n. 6, dove mi mostrarono l’ordine di formare una commissione speciale con una formula piuttosto originale: “per l’organizzazione delle iniziative volte a garantire le cure sanitarie durante lo svolgimento delle esercitazioni di difesa civile”…

– È così che decisero di chiamare l’incidente di Cernobyl?

– Il primo giorno ci provarono, nella speranza di poter nascondere le reali conseguenze. Io ero stato nominato vicepresidente della commissione, e mi era stata affidata la parte clinica. La situazione si evolveva tragicamente… Da una parte – e questo mi colpì! – già la notte dopo l’incidente venne formata e mandata sul posto la squadra dei nostri medici, e già la notte i medici iniziarono con competenza a selezionare i malati con sindrome acuta da irradiamento, che fondamentalmente si trattava dei pompieri che per primi erano andati a spegnere l’incendio. Nei primi due giorni vennero da noi 129 persone, di cui 86 con la sindrome acuta da irradiamento. Immaginatevi un po’ il quadro: arrivano autobus con uomini contaminati dalle radiazioni, malati con sindrome da irradiamento.

– E come si riconoscono la sindrome da irradiamento e il grado della sua acutezza?

– Nel caso della sindrome acuta si manifestano immediatamente vomito, forte mal di testa e, per ogni caso specifico, da questi sintomi il dottore che era venuto a trovarsi lì poteva con competenza discernere chi avesse una forma più acuta piuttosto che più lieve. Gli autobus, naturalmente, erano anch’essi radioattivi, i vestiti delle persone tutti sporchi, radioattivi – e tutto questo finiva nell’accettazione dell’ospedale. Ma alla vigilia della notte (!), non appena sorsero dei sospetti che sarebbero stati portati uomini con la sindrome da irradiazione, dall’ospedale dimisero tutti. Perché? Perché tutti i pazienti che portavano lì erano radioattivi e irradiavano. E se uno di loro, mettiamo, era ricoverato in una corsia al terzo piano, nella corsia di sopra non doveva trovarsi ricoverato nessuno, e lo stesso nella corsia di sotto… Il fondo radioattivo intorno era enorme. E in condizioni del genere i nostri medici – io li considero delle persone eroiche – visitavano, curavano, tranquillizzavano…

– Perché, non c’era nessun abbigliamento protettivo?

– Ma quali abbigliamento protettivo! I guanti erano di plastica, i camici, per quanto fossero accessibili allora, nei primi due giorni… Sempre in accettazione facevano a spintoni pure i piloti e le hostess che avevano trasportato i malati e che capivano che pure loro erano “sporchi”. E bisognava visitare, tranquillizzare pure loro.

– Perché, ci sono persone più predisposte all’irradiazione e altre meno predisposte?

– La predisposizione qui non c’entra niente. Prendete, per esempio, le siringhe – si contaminano subito, bisogna ficcarle da qualche parte. Le bende, il cotone, perché i pompieri erano tanti e poi con ustioni – tutto era radioattivo. Ecco, là mi tornò in mente il mio lavoro negli ospedali da campo durante la guerra… Ma al quarto o quinto giorno ci inviarono un reggimento di soldati con equipaggiamento speciale, essi piantarono le loro tende nel cortile dell’ospedale, vivevano lì e portavano via e tutta quell’enorme quantità di roba radioattiva. Fu solamente grazie all’esercito che riuscivamo a cavarcela.

– Quanto i nostri medici e i servizi sanitari si dimostrarono pronti a un lavoro di tal genere?

– Il nostro ospedale n. 6 era stato appositamente creato all’interno della Terza direzione principale, che si occupava proprio degli aspetti medico-biologici dell’industria atomica. Questo ramo sì andava sviluppando parallelamente all’energia nucleare. E tutti i malati con sindrome acuta da irradiazione si rivolgevano a noi, tranne rare eccezioni. E da tutto il mondo. Incidenti a reattori, casi disgraziati…

– Riguardo agli incidenti è chiaro, ma cosa sarebbero questi casi disgraziati?

– Be’, per esempio, in Brasile accadde questo: venne perso un apparecchio spettronomo. Qualcuno lo trovò, se lo portò a casa, si mise a smontarlo, a studiarlo, a vedere cosa ci fosse dentro. Risultato: tutta la famiglia finì da noi con la sindrome acuta da irradiamento.

– Dal Brasile?

– Sì. Cosa credete, che soltanto da noi si lavora con questo… Parallelamente nel nostro istituto c’erano dei laboratori nei quali noi studiavamo dettagliatamente l’effetto delle radiazioni sul sistema nervoso, sulla struttura sanguigna, elaboravamo metodi di cura. Andavamo ai poligoni dove si facevano esplodere bombe, irradiavamo i cani, studiavamo tutto ciò che avveniva in quelle condizioni. Per questo, quando successe Cernobyl, conoscevamo praticamente tutto. Se uno ha ricevuto 600 rad – il 12° giorno avrà inizio il periodo culminante. Se non lo si cura, il 23°-25° giorno morirà… E il 26 aprile, quando ci portarono i malati, sapevamo già che per i casi estremamente gravi non avremmo potuto fare nulla… E poi gli addetti sanitari si rifiutavano di lavare i cadaveri, e già il giorno stesso della mia partenza per Cernobyl come un addetto sanitario lavavo io un morto… E dunque i nostri medici sapevano benissimo tutto: e come curare le ustioni in tali condizioni, e come curare gli occhi, e i momenti nervo-psichici che manifestavano i malati gravi…

– E i medici poi venivano in qualche modo disinfettati?

– Ma cosa dice! Chi? In seguito cominciammo a obbligare i medici a portare i dosimetri. Ma all’inizio – si lavorava forsennatamente ventiquattrore su ventiquattro. Ricordo come il 12°-13° giorno – il più tormentoso per i malati gravi – non appena ebbe inizio la consueta riunione mattutina in ospedale la dottoressa di turno scoppiò in lacrime… La situazione era tremendamente grave. Sul piano professionale non ci sentivamo però impotenti. C’era il sangue, e i surrogati del sangue, ed erano cominciati perfino i trapianti di midollo osseo.

– Sindrome da irradiazione – suona terribile. Ma che cos’è? Come si manifesta?

– Dipende dal livello di gravità. Il primo livello è lieve. Esistono diversi punti di vista, ma siamo nell’ordine dei 150 rad. Nel corso delle nostre ricerche irradiavamo i malati oncologici, i loro tumori, davamo loro una dose di 100-150 rad. La sindrome da irradiazione lieve si manifesta con alterazioni del sangue: diminuisce la quantità di leucociti, linfociti – tutte le cellule divisibili sono più sensibili alle radiazioni ionizzanti. Già nel livello intermedio – nell’ordine dei 250 rad – si altera la coagulabilità del sangue, e in tale condizione perfino un lieve colpo provoca la formazione di un enorme ematoma. Il livello grave – 500-600 rad, una dose mortale – inizia invece con il vomito. Poi il vomito passa. Per questo malati anche gravissimi da noi arrivarono, nel complesso, in buona disposizione. Ma già dopo 7-12 giorni ha inizio il culmine della malattia: si stilla il sangue, i globuli sanguigni scompaiono, il sangue si svuota, comincia a patire il sistema nervoso, febbre, debolezza, infezione, il sistema immunitario non ce la fa, la persona perde conoscenza, un quadro davvero terribile… Non fummo in grado di salvare 28 persone. I rimanenti, per fortuna, guarirono, anche quelli gravi.

– E com’era là a Cernobyl?

– Là era come al fronte: niente soldi, niente alcol, e i rapporti tra di noi erano tali che, se c’era da aiutare qualcuno, immediatamente si offrivano tutti. Ad esempio, io arrivai là il 15 maggio e m’imbattei nel fatto che i pompieri che continuavano a prestare servizio alla centrale erano del tutto senza protezione! Io spiegai che era necessario edificare delle barriere di “mattoni” di zinco per proteggere il midollo osseo delle persone. La maggior parte del midollo osseo si trova nelle ossa del bacino, per questo, persino se uno viene irradiato, le sue stesse cellule del tronco possono fungere da compensazione. Ardisco pensare che in questo modo preservai la salute di molte persone…
Lavoravamo, naturalmente, con dei ritmi mostruosi, a volte si doveva andare anche al reattore. Ci si andava con dei mezzi blindati. Per me era importante controllare che i minatori che lavoravano là avessero tutte le misure di protezione necessarie. E quando ce ne andammo dall’albergo dove eravamo alloggiati, dovettero cambiare tutto, tutti i mobili erano diventati radioattivi dopo di noi.
Va anche detto che la nube di polvere radioattiva si diresse più verso la Bielorussia che non verso l’Ucraina, e sorse persino la questione se trasferire l’intera piccola tranquilla cittadina di Bragin… Vi immaginate cosa volesse dire? Ma per fortuna questo non avvenne. Riuscii a convincere i compagni che non ce n’era la necessità. Noi per molti anni avevamo infatti condotto delle ricerche scientifiche le quali mostravano che con un irradiamento costante fino a 25 rad non avviene assolutamente alcuna alterazione in un organismo vivente. Durante quegli esperimenti nel corso di 3-6 anni avevamo irradiato ogni giorno dei cani con diverse dosi e li avevamo poi osservati per tutta la vita. A Bragin allora c’erano 5-7 rad…
A Mosca però tornai in tutta urgenza e su un’autoambulanza: ebbi un incidente stradale. La mia macchina si scontrò con un camion che portava un carico radioattivo. Con questo ebbe fine la mia epopea…

– Quali conseguenze ebbe quella catastrofe per coloro che furono là e ne uscirono vivi?

– Quella delle conseguenze per i liquidatori è una questione molto complessa. Molti si presero delle dosi notevoli, ma di sindrome acuta da irradiamento si può parlare per poco più di un centinaio di persone. Su circa 200.000 liquidatori. Certamente, essi necessitano dell’assistenza per le cure sanatoriali e di un trattamento speciale. Ma, per fortuna, le previsioni di un aumento dei casi di leucemia come conseguenza remota non si sono confermate. E per i liquidatori oggi si tratta probabilmente più di conseguenze socio-psicologiche che mediche. Per fare un esempio, prossimamente si terrà il congresso dei radiobiologi e uno degli interventi verterà sul tema… della dipendenza alcolica tra i liquidatori.

– Mi pare di ricordare che allora si dicesse che il vino rosso fosse un buon rimedio contro la contaminazione radioattiva. Corrisponde al vero?

– No. Dall’alcol possono derivare solo danni. E lo so con certezza. Su questo tema abbiamo condotto ricerche complete ed esaurienti. Effettivamente, allora ci telefonavano e ci scrivevano da tutto il paese e ci proponevano una volta vino rosso una volta del mumio, tutti i rimedi possibili. Noi mandavamo tutto in un laboratorio appositamente creato e facevamo le nostre oneste verifiche.

– Con che cosa curavate i malati?

– Con un complesso di preparati: e antibiotici, e soluzioni antiemorragiche. Allora delle questioni nucleari ce ne si occupava molto e seriamente. E anche oggi in questo campo abbiamo un evidente superiorità rispetto agli specialisti stranieri.

– E rispetto alle conseguenze in generale, per tutta la popolazione, magari a livello genetico?

– C’è un lieve aumento dei casi di cancro della tiroide in coloro che erano allora bambini e vivevano nelle province contaminate. Per fortuna, non si è manifestata la patologia più grave con leucemia. Con una commissione governativa ci recammo in Bielorussia per vedere i vitelli “mutanti”, ma giungemmo alla conclusione che la cosa non ha un rapporto diretto con l’incidente di Cernobyl. E se anche ce l’ha, in ogni caso non ha un’incidenza di massa. La pratica dimostra che un simile evento può succedere anche in condizioni naturali. E per quanto riguarda le persone, di difetti congeniti se ne trovano molto più di frequente in soggetti con genitori alcolisti, indipendentemente dal loro luogo di nascita.
Ultimamente mi sto occupando più di campi elettromagnetici che di radiazioni. E devo dire che ora dovremmo preoccuparci più di questi. In particolare per quel che concerne i bambini. Essi rappresentano oggi per l’uomo realmente un grosso pericolo. Le radiazioni ionizzanti sono locali. Mentre quelle non-ionizzanti (i telefoni cellulari ecc.) riguardano tutto il pianeta. In secondo luogo, le radiazioni ionizzanti si fissano: tanto hai preso, tanto resterà. Mentre quelle elettromagnetiche anche in piccole dosi in determinate situazioni possono causare una sindrome convulsiva…

– L’utilizzo delle centrali nucleari lo ritiene oggi giustificato o, al contrario, rischioso?

– Lo ritengo un mezzo assolutamente sicuro, moderno, civile per ottenere energia, il quale necessita di un determinato tipo di controllo. Intorno a esso ci sono molti miti e problemi inventati, quando in realtà è tutto semplice da controllare – ci sono i dosimetri e, cosa più importante, si conoscono i mezzi di protezione.

Data: 26.04.2010
Fonte: www.rtkorr.com

Traduzione: S.F.

Link al pdf dell'articolo: A Cernobyl era come al fronte