Pubblichiamo il bel racconto di Francesca De Santis, nostra amica e collaboratrice, sulla sua visita alla zona di Černobyl’ dell'estate scorsa.
01/07/2017: VIAGGIO NELLE TERRE DI ČERNOBYL’
Sin da piccola sono sempre stata
quasi morbosamente interessata alla catastrofe di Černobyl’. Sarà per quell’amica
venuta da lontano, con cui trascorrevo le mie estati d’infanzia al mare, sarà
per la passione per l’Europa dell’Est che si è poi sviluppato durante gli anni
universitari.
Non so cosa esattamente mi abbia
spinto a farlo, ma a fine giugno decido finalmente di intraprendere il mio
breve viaggio in solitaria verso Kiev, un viaggio a lungo meditato e sempre
rimandato.
Trascorro due giornate di sole
splendente nella capitale ucraina, con una calda e festosa atmosfera estiva che
ha accompagnato le mie lunghe camminate per la città. Il terzo giorno del mio
soggiorno è dedicato alla visita guidata alla zona di esclusione di Černobyl’.
Per motivi di sicurezza, è impossibile accedere all’area senza una guida
autorizzata.
Quasi a voler darne la giusta
cornice, il clima cambia radicalmente: la giornata fin dalle prime luci dell’alba
si fa grigia, umida. Spenta. Giungo di buon mattino al punto di ritrovo per il
tour guidato, la stazione di Kiev. Lì vi trovo già una quindicina di persone
radunate. Mi avvicino a una delle guide, porgendogli il mio passaporto per la
registrazione, e questo mi guarda stranito. “Sicura di non esserti sbagliata,
forse dovresti andare con il gruppo con la guida in inglese”. Mi volto verso il
pullman vicino al quale si era raggruppata un po’ di gente allegra e
schiamazzante. Mi convinco ancor di più di aver fatto la scelta giusta,
volgendo poi il mio sguardo ai 4 ragazzi ucraini che diventeranno i miei
compagni di viaggio per un giorno. L’aria riservata, taciturni, mi guardano
tutti tra lo stranito e l’incuriosito: una ragazza italiana, da sola, a Kiev,
diretta a Černobyl’.
Iniziamo il nostro viaggio,
lasciandoci alle spalle la capitale e attraversando chilometri di anonima
periferia. Dopo circa un’ora e mezza raggiungiamo il celebre check-point
Ditjatki, punto di racconta, di controllo dei documenti e di accesso all’area
di esclusione (così viene chiamata l’area compresa nell’arco di circa 30 km
dalla centrale nucleare, dove è proibito vivere e accedere senza regolari
permessi).
Fin qui sembra quasi di partecipare
ad una visita turistica come tutte le altre, se non fosse per i serissimi
uomini in divisa che è vietato fotografare: bancarelle che vendono ogni sorta
di souvenir, maschere antigas, cartoline, portachiavi, magliette, tutti gadget
che espongono quasi con ironico orgoglio il simbolo della radioattività. Il
business del turismo non ha pietà nemmeno per le grandi tragedie. I turisti,
curiosi e sorridenti, in attesa di ottenere l’autorizzazione ad accedere nell’area
proibita, si scattano fotografie accanto a un carrarmato perfettamente
funzionante, anch’esso rigorosamente dotato del marchio di “pericolo
radioattivo”.
Il mio gruppo ottiene il permesso ad
entrare per primo, forse per il ristretto numero di partecipanti, forse perché
composto solo da gente del posto. Ci addentriamo nella zona di esclusione
percorrendo ancora qualche chilometro sul nostro pulmino, con quel misto di
curiosità, aspettative non ben definite e anche un po’ di timore. Tutto è
avvolto da un surreale silenzio, una lunga strada asfaltata e tutt’attorno, all’apparenza,
nient’altro che boschi. Lungo la strada ci fermiamo e ci addentriamo a piedi
nel bosco, per scoprire sin da subito i resti di quello che un tempo era un
villaggio, uno tra tanti, nel quale la vita scorreva nella sua quotidianità
senza pretese. Ormai quasi totalmente inghiottiti dal bosco, un negozio di
generi alimentari, una scuola, un ospedale, modeste case di campagna.
Proseguiamo la nostra escursione e
ci fermiamo lungo le rive di un laghetto. Una zona con un livello radioattivo
molto alto, come ci fanno notare i nostri dosimetri che, avvicinandosi al
terreno, iniziano a suonare all’impazzata. E qui, proprio dove sembra che il
mondo si sia fermato, in un luogo apparentemente disabitato e dimenticato da
Dio, osserviamo le tracce della presenza umana che si rivela, come spesso
capita, irrispettosa: bottiglie vuote, lattine, sacchetti di plastica, a
dimostrare che realmente ci sono persone che accedono illegalmente alla zona di
esclusione, dedicandosi a picnic a base di radioattività.
Con la pioggia che inizia a
diventare più intensa, ci fermiamo poi nella cittadina di Černobyl’, dove un
toccante memoriale è composto da un monumento di un angelo realizzato in ferro
e un viale affiancato dai cartelli stradali riportanti i nomi di tutti i paesi
e villaggi che sono stati annullati, cancellati, dal disastro nucleare.
Leggendo i nomi di anonimi villaggi che si susseguono l’uno dopo l’altro, si ha
la stessa percezione di sacralità che si può avere percorrendo il viale principale
di un cimitero.
Sotto la pioggia battente
raggiungiamo poi la città simbolo di questa tragedia: Pripjat’, un tempo città
satellite della centrale nucleare, ora un non-luogo dalla forte carica emotiva.
Le forti precipitazioni trasformano la visita in una sfida continua tra
macerie, edifici cadenti e la prepotente natura rigogliosa.
Girando per le strade di Pripjat’,
il cui asfalto è stato in molti punti sopraffatto dalle possenti radici della
natura, è difficile immaginare che proprio lì, poco più di 30 anni fa, c’era
una città dotata di infrastrutture all’avanguardia, costruita con tutti i
comfort che l’epoca sovietica poteva concedere ai suoi abitanti, le famiglie
dei lavoratori impiegati nella centrale di Černobyl’. Un cinema, un teatro,
delle palestre, un parco giochi, una piscina, sale da ballo e da concerto.
Entrare negli edifici, per ovvi
motivi di sicurezza, è vietato. La polizia gira per le strade per assicurarsi
che le regole vengano rispettate. Poiché il nostro è un gruppo piccolo, la
guida ci fa comunque accedere in diversi edifici e ci propone di salire fino al
sedicesimo piano di uno degli edifici più alti della città: bisogna fare in
fretta, per evitare di farsi notare. Sedici piani di scale pericolanti fatte di
corsa, con il fiato sospeso, tra mura scrostate e finestre semi-distrutte,
calpestando qua e là vetri infranti e assi di legno crollate. Una volta su,
però, la vista è spettacolare e desolante allo stesso tempo. Chilometri e
chilometri di boschi, piccoli laghi, mentre qua e là spuntano stoicamente i
grigi edifici della città. In lontananza la Bielorussia.
La scuola elementare, con ancora
tutti i lettini disposti l’uno accanto all’altro, sul pavimento quaderni e
bambole. La palestra impolverata e pericolante, il campo da calcio che ora sembra
solo un grande spiazzo vuoto, il parco giochi mai inaugurato, la cui ruota
panoramica, congelata nel tempo e nella ruggine, è diventata l’immagine simbolo
di questa tragedia.
Ci vuole un certo sforzo
immaginativo per riuscire a rappresentarsi la vita, tra quei palazzi grigi. Una
vita normale, prima dell’invisibile tragedia. L’impressione è quella di
muoversi all’interno di un videogioco ambientato in scenari post-apocalittici.
Scopro poi, senza grande stupore, che un famoso gioco per computer è ambientato
proprio tra le strade della città di Pripjat’.
Gli ultimi attimi della visita sono
momenti prettamente turistici: l’ultima tappa è la centrale, ma durante il
percorso sostiamo lungo il canale che serviva da sistema di raffreddamento. In
esso nuotano dei pesci gatto dalle dimensioni considerevoli, le quali non sono
dovute tanto a mutazioni genetiche causate dalle radiazioni, quanto piuttosto
al continuo nutrimento che gli viene offerto dai numerosi turisti. E così anche
noi ci sottoponiamo a questo rito, lanciando loro briciole di pane recuperato
in mensa durante il pranzo.
Infine la foto ricordo davanti alla
centrale: la nuovissima copertura in acciaio è stata posizionata solo pochi
mesi fa, verso la fine del 2016. Una struttura mastodontica e all’avanguardia,
costata circa 2 miliardi di Euro, che dovrebbe arginare la fuoriuscita di
radiazioni per i prossimi 100 anni. Dopo la foto ricordo sorridenti e bagnati
fradici, risaliamo sul nostro pulmino lasciandoci alle spalle la centrale,
attraversiamo la famosa foresta rossa e ci dirigiamo verso l’uscita. Prima di
lasciare l’area, però, bisogna effettuare il controllo del livello di radioattività
assorbita, attraverso macchinari dall’aria estremamente sovietica. I livelli
sono nella norma, risaliamo quindi tutti sul pulmino per rientrare a Kiev.
Una volta nella mia camera d’albergo,
faccio un sacchetto e butto tutti i vestiti che avevo indosso quel giorno,
scarpe comprese. I miei vestiti sono usciti indenni dal controllo, la dose di
radioattività assorbita è nettamente inferiore al livello massimo consentito
dalla legge, eppure sento il bisogno di sbarazzarmene.
Dopo una giornata trascorsa nell’area
contaminata, ho la sensazione che le radiazioni siano ovunque, pericolo
invisibile che si insinua silenziosamente sotto pelle.
Eppure, percorrendo la zona di
esclusione in questa atmosfera così irreale, non è tanto il pericolo per la
salute la cosa che più rimane impressa, quanto la straordinaria forza della
natura, la sua capacità di riadattarsi, il verde rigoglioso che riprende
orgoglioso possesso di quanto un tempo era stato suo.
Francesca De Santis
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