I microbi nell’area circostante Chernobyl
non sono più in grado di svolgere la loro principale funzione, quella
di “decompositori”, ossia di organismi in grado di trasformare la
sostanza organica morta in sostanza inorganica, da cui si nutrono le
piante. Ne consegue che la vegetazione morta rimane secca e aumenta il rischio di incendio, con conseguente diffusione della radioattività. È il risultato dell’ultimo studio realizzato nella zona dove il 26 aprile 1986 esplose la centrale nucleare, rilasciando enormi quantità di composti radioattivi, e appena pubblicato nella rivista Oecologia. Lo studio è stato condotto da Timothy Mousseau, professore di biologia e co-direttore del Chernobyl and Fukushima Research Initiatives alla University of South Carolina e da un team di scienziati fra i maggiori esperti nel campo: Gennadi Milinevsky, Jane Kenney-Hunt, Anders Pape Møller.
Stando alle conclusioni dei ricercatori, l’ecosistema della zona è
seriamente compromesso e le conseguenze possono essere, nuovamente,
catastrofiche.
Diversi studi e rapporti avevano già messo in luce
come le conseguenze di Chernobyl si facciano sentire ancora oggi, a
distanza di 28 anni. La zona dell’esplosione rimane, infatti, un
focolaio di radioattività e, benché non sia più popolata da persone, è
piena di fauna: lupi, orsi, uccelli, tutte specie contaminate e, in
alcuni casi, con gravi deformazioni agli organi interni. I casi di
contaminazione, però, continuano a sentirsi anche nell’Europa
occidentale: è il caso, ad esempio, dei cinghiali della Valsesia in cui sono state trovate un anno fa tracce di cesio137
oltre la soglia prevista in caso di incidente nucleare, o dei funghi e
del latte piemontesi, anche quelli contaminati. Lo studio di Mousseau,
però, sembra essere ancora più preoccupante. Ad essere “malati”,
infatti, sarebbero alcuni microorganismi, come i microbi e i funghi, che stanno alla base del ciclo naturale.
Data: 27.03.2014
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
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