Nei
diversi anni il “sarcofago” è stato ora sinonimo di tragedia, ora di eroismo,
ora di ricatto governativo. Oggi è messo alla prova da ingenti quantità di
soldi.
Non i robot
Chi e quando per la prima volta abbia chiamato
“sarcofago” l’impianto di “copertura” sopra il quarto reattore esploso della
Centrale nucleare di Cernobyl, non sono riuscita a scoprirlo. Alla centrale
sono sicuri: furono i giornalisti a chiamarlo così. Hanno creato un’immagine
simbolo.
Il “sarcofago” venne innalzato alla fine del 1986,
sette mesi dopo l’incidente, appoggiando sulle costruzioni rimaste in piedi
tonnellate di cemento. All’interno vi rimasero rinchiuse le masse di
combustibile nucleare, la polvere radioattiva e l’acqua radioattiva.
Quest’ultima si trattava dell’acqua piovana che passava attraverso le crepe e i
buchi del tetto e le giunture dell’impianto. Il sarcofago venne costruito a
ritmi pazzeschi, con tanti sacrifici, tuttavia il risultato non sarebbe potuto
essere diverso. Dalle fessure fuoruscivano le radiazioni.
– All’inizio nel mezzo dell’impianto vi andarono
degli uomini, la spedizione dell’istituto Kurčatov, per stabilire in modo non
solamente matematico dove di preciso si trovasse e quanto combustibile nucleare
fosse rimasto. Circa 200 tonnellate si trovano ancora qui…
Il puntatore scorre lungo le parti interne del
plastico della centrale. Julija Marusič, l’addetta del reparto dei rapporti
internazionali e d’informazione della Centrale di Cernobyl, sta conducendo una
visita nel padiglione dimostrativo, che è anche la sala d’osservazione per gli
ospiti. Dietro la grande vetrata, la cui bellezza è un po’ rovinata dagli
adesivi “Fotografie e riprese sono categoricamente vietate!”, si staglia nel
suo grigiore l’impianto di “copertura”, quello autentico.
– Un fatto è noto: la lastra inferiore del reattore
era bruciata e il combustibile liquefatto aveva cominciato a spostarsi. C’era la
concreta minaccia che tutto potesse andare a finire nel terreno, nelle acque
sotterranee. Allora sotto l’edificio del quarto reattore, dalla parte del
terzo, venne tracciato un tunnel. Si era programmato di riempirlo di azoto
liquido. Ma poi non ci fu bisogno di farlo, perché le masse contenenti
combustibile nucleare si arrestarono spontaneamente nei locali sotto il
reattore. E la temperatura cominciò a scendere molto velocemente, molto
bruscamente. Letteralmente da 2.000 gradi Celsius a 50. Ancora oggi misuriamo i
parametri della temperatura. Sotto il reattore, sotto la superficie del combustibile,
alla distanza di due metri, di un metro, ci sono i sensori.
– Li installarono i robot?
–
Purtroppo, gli uomini. Essi trivellarono dei fori nei locali corrispondenti e
vi si calarono.
– I sensori sono ancora utilizzabili?
– Sì,
funzionano ancora. Rilevano la temperatura, l’umidità, la potenza del flusso di
neutroni, la potenza delle dosi dei raggi gamma. Proprio di recente, a fine
2011, è stato messo in funzione un sistema di controllo automatico della
“copertura”, sono comparsi dei sensori moderni. L’impianto ne è costellato nei
suoi vari livelli. Ora viene tenuto sotto controllo anche l’andamento delle
costruzioni in corso. Sempre in funzione dell’innalzamento della sicurezza del
personale. In precedenza inclinazioni e spostamenti si potevano rilevare solo a
livello visuale: cioè gli uomini vi andavano dentro… Un altro settore è quello
del controllo sismologico, che è diventato molto attuale dopo Fukushima. Il
progetto è integrato nella sfera di iniziative previste per la costruzione del
nuovo “confinement” (dall’inglese
“isolamento”, “privazione della libertà”), finanziato dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo e da una serie di paesi donatori, tutti rappresentati nella nostra
esposizione.
– Nel 2011 ovviamente saranno state adottate
tecnologie robotizzate?
– I
robot purtroppo non hanno resistito. Gli elevati campi radioattivi hanno fatto
andare l’elettronica fuori uso. E inoltre ci sono degli ostacoli squisitamente
fisici: parte dei locali sono ingombri, altri riempiti di cemento. Hanno trivellato le fessure…
La stabilizzazione della “Copertura” è costata 50
milioni di dollari. A oggi questo è l’unico progetto completato nell’area della
Centrale, realizzato con finanziamenti internazionali.
Il pagamento per la paura
Del fatto che la tenuta del “sarcofago” fosse stata
calcolata per tre decenni al massimo e che poi sarebbero servite nuove idee, se
ne iniziò a parlare attivamente fin dall’inizio nel 1992, con il rapporto del
professor Pellerein, atomico francese che aveva visitato la centrale. Nel
giugno di quell’anno, per iniziativa del governo ucraino venne indetto un concorso
internazionale per la trasformazione della “Copertura” in un impianto
ecologicamente sicuro. I risultati vennero decisi a lungo. L’appalto venne
infine assegnato alla compagnia francese Kampenon Bernard. Nella fase
d’acquisizione delle basi tecnico-economiche, vennero stanziati 3 milioni di
Ecu tramite il programma TACIS. La gara d’appalto fu vinta dal neonato
consorzio tecnico-industriale di imprese europee Alliance. Il consorzio propose
di coprire con una cupola il “sarcofago” insieme al vicino terzo reattore per
poi effettuare lavori di scavo e di recupero delle scorie nucleari dal reattore
distrutto. Ma nella seconda fase, quella di recupero delle scorie, Alliance non
s’impegnò: non era loro competenza. Il costo di preventivo della costruzione
era di 1 miliardo e 600 milioni di dollari.
Questa somma e la sostanza dell’offerta ha senso
ricordarsele. Kiev non disponeva di tali risorse. Il presidente Kravčuk
rinunciò alla cupola.
Nel frattempo, la comunità scientifica d’Ucraina
esaminò la scandalosa anteprima di pubblicazione dell’Istituto Kurčatov firmata
dall’accademico Spartak Beljaev. Nel documento, stampato in 62 esemplari in
tutto, si evidenziava che i calcoli riguardanti il “mondo interno” del
“sarcofago” di frequente venivano adattati a seconda della condotta e dei
dettami delle alte sfere dirigenziali, incluse quelle politiche. Per fare un
esempio, nell’opuscolo venivano definiti come “finzione” le immagini di cronaca
– che avevano fatto il giro del mondo – dell’accademico Velichov che introduce
una sonda di ricerca nel vano del reattore, con la sonda che però andava a
cadere non tanto nel vano, ma nella vasca di trattamento nord. Che cosa stava
dunque rilevando? Di siffatti esempi in quell’anteprima di pubblicazione ve
n’erano molti. S’imponeva una logica conclusione: prima di costruire la
prossima struttura protettiva, si sarebbe dovuto rispondere con sincerità ai
quesiti sull’esatta ubicazione del combustibile nucleare, sulle sue
caratteristiche e dimensioni e sul metodo di estrazione da utilizzare. Tali questioni
erano molto care in tutti i sensi.
A Kiev tuttavia girava la voce che il “sarcofago” sarebbe
presto stato calato per sempre in profondità, in un pozzo di cento metri che
era stato predisposto per il caso di un incidente del genere ancora dai
progettisti della centrale nucleare. La mentalità degli uomini postsovietici
andava a negare l’evidenza: di certo non potevano non averlo previsto!...
Verso la metà degli anni Novanta ci furono frequenti
comunicazioni da parte di fonti ufficiali sul brusco aumento del flusso dei
neutroni, rilevato dai sensori all’interno del sarcofago. Una reazione a
catena, a cui sarebbe seguita un’esplosione?... Addirittura per due volte si
era dovuto evacuare il personale della Centrale di Cernobyl ancora in funzione.
La “Copertura” veniva paragonata a un granaio pieno di buchi. E per ogni
intervento di riparazione venivano con urgenza stanziati fondi dal budget
nazionale. E quando le somme ritardavano, le “emanazioni” cominciavano a intensificarsi
bruscamente.
Per il 10° anniversario dell’incidente il conflitto
d’interessi tra coloro che prendevano le decisioni raggiunse il suo picco. L’Occidente
prometteva all’Ucraina pagamenti a causa della propria paura. In cambio però
insisteva sulla completa chiusura della centrale. (Tenendo anche conto che il
terzo reattore, ancora attivo, aveva una parete in comune con il quarto, la
richiesta non pareva certo esagerata.) Kiev voleva allo stesso tempo sia i
soldi per la “Copertura” sia mantenere funzionante la centrale nucleare.
«Con il “sarcofago” si mantengono Goskomatom (tramite
la Centrale
di Cernobyl), il Ministero per la tutela ambientale e la sicurezza nucleare, il
Ministero delle emergenze e l’Accademia delle scienze d’Ucraina. Ciascuno di
questi enti dispone di una sua propria banca dati che utilizza a seconda della
propria convenienza. Non esiste un’informazione obiettiva», – spiegava allora
il consulente capo della Commissione Cernobyl della Rada suprema Vladimir
Usatenko. A Vladimir io feci un’intervista nel 1996, dopo che, con l’autorizzazione
del direttore generale della Centrale di Cernobyl Sergej Parašin, avevo
camminato sul tetto del “sarcofago”. Salendo con il dosimetro per la scala del
muro di sostegno, avevo allora provato un senso affidabilità. In ricordo mi
consegnarono un certificato con la microdose ricevuta, assolutamente non nociva
per la salute. E io scrissi un reportage. A quanto pare, sostenendo le tesi
probatorie di uno di quegli enti… Tuttavia furono altre idee a imporsi.
L’arco dell’amicizia finanziaria tra i popoli
Nel dicembre 2000, il presidente Leonid Kučma in
tutta solennità, in diretta televisiva, adempì le condizioni dell’Unione
europea. Diede il comando per l’arresto dell’ultimo reattore attivo della
centrale. A quel punto, la realizzazione del piano di lavori sulla “copertura”,
approvato nel 1997 su iniziativa del G7, non avrebbe dovuto più avere ostacoli:
tranne però gli animati processi politici in Ucraina e l’ampliamento in Europa
della cerchia delle strutture desiderose di partecipare al salvataggio di
Cernobyl. Ricostruire oggi l’ordine delle cifre su cui si svolse la battaglia
concorrenziale delle compagnie occidentali per la mega-commessa, nonché le
interazioni con la Kiev
ufficiale – ministri, dirigenti del settore atomico, lobbisti d’ambiente parlamentare
e scientifico – pare impresa impossibile. Le testimonianze sono
contraddittorie, sebbene coincidano nell’aspetto fondamentale: tutto ciò favorì
la crescita galoppante dei costi dell’azione umanitaria.
Nel 2004, ancora con Kučma, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo indisse una gara d’appalto per la progettazione, la costruzione e la messa
in funzione di una nuova struttura (“confinement”) di sicurezza. Nel 2007,
ormai sotto Juščenko, fu finalmente firmato il contratto. Il costo del
contratto era di 505 milioni di dollari, il tempo di realizzazione di cinque
anni. Al lavoro si mise un consorzio francese, il cui nome suonava totalmente
ucraino: NOVARKA, cioè “Nova arka” (“Nuovo arco”). Tuttavia, i reclami nei
confronti del presidente Viktor Juščenko e della sua “disgustosa gestione” il
direttore del Dipartimento per la sicurezza nucleare della Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo Vince Novak chissà per quale ragione li denunciò pubblicamente
soltanto dopo l’ennesimo cambio di potere, cioè nel 2010. Cito le sue parole
dalla pubblicazione canadese The Glob and
Mail: «Per evitare qualunque tipo di perdita a causa della corruzione delle
risorse finanziarie stanziate noi abbiamo dovuto mettere in atto le più severe
misure di sicurezza, e a volte questo ha significato che ci sono stati periodi,
conteggiabili in anni, nei quali nessuno degli ucraini non muoveva più un dito».
La cosa caratteristica è che Kiev non cercò neanche
di smentirlo. La Banca
a sua volta non stette a gonfiare lo scandalo. E insieme ai paesi finanziatori
del Fondo per Cernobyl raccolse ancora più di 900 milioni, non più di dollari,
ma di euro. Non furono d’intralcio né la crisi finanziaria mondiale, né i
problemi economici interni ai diversi paesi. Ad esempio, accanto a Francia,
USA, Germania, Gran Bretagna, Russia e altri paesi, della messa in sicurezza di
Cernobyl con il nuovo “confinement” si preoccupò pure la Grecia, devolvendo 5
milioni di euro. All’incirca la stessa somma venne elargita dal Kuwait.
In totale, secondo i dati corretti e precisati, il
costo del progetto è di 1 miliardo e 540 milioni di euro. Per codesta somma
NOVARKA ha garantito già nel 2015 l’erezione di un bell’arco, innalzato sopra
il “sarcofago”, dal quale successivamente verrà estratto il contenuto nocivo.
Riguardo a chi, come, quando e a che costo si occuperà di questa seconda fase –
neanche una parola. Un remake degli anni Novanta, con il prezzo della cupola aumentato?
«I soldi percorrono un cerchio, in parte depositandosi strada facendo nelle tasche
delle persone coinvolte, e ritornano indietro, per il corridoio europeo», –
sono le conclusioni fatte dall’agenzia d’informazione ucraina di settore
AtomNews. Una serie di esperti – tra cui alcuni premi di stato del Consiglio
dei ministri dell’URSS e dell’Ucraina, il primo capo della “Copertura” Vladimir
Ščerba e uno degli ex direttori della Centrale di Cernobyl Michail Umanec – ha
dichiarato all’unisono: è una sorta di corsa sul posto, il “surplace” va bene a
entrambe le parti, se i professionisti ucraini tacciono e i consulenti
occidentali prendono le decisioni. I “nonni” si sono adoperati a farli passare
come “diffamatori”.
Il 26 aprile 2012, Viktor Janukovič giunse a Cernobyl
in elicottero, evento per cui, per la prima volta in un quarto di secolo, si
formarono delle code di macchine di accompagnamento e della scorta. Per il
presidente venne allestita una tribuna con un pulsante speciale. Quel pulsante,
premuto, emise un “Tu-u…” Nell’area della centrale, ripulita dal terreno
radioattivo, NOVARKA diede inizio ai lavori di montaggio.
Arriverà nella
Zona “Svoboda”?
Dell’organizzazione della mia trasferta nella Zona
d’interdizione se n’è occupato il Centro d’informazione dell’impresa statale
“Complesso speciale Cernobyl”.
Quando mi divenne chiaro che i francesi, i capi del
consorzio, con i giornalisti non ci vogliono parlare, ho cercato di passare
dalle retrovie. Provai a rivolgermi per un supporto a David Stulik, press attaché della rappresentanza UE in
Ucraina. David inviò delle mail a Bruxelles, motivando la necessità dell’intervista
con l’urgenza del tema, io mi beavo quietamente, poiché non avevo mai trovato
in precedenza una simile partecipazione tra i funzionari locali. Alla fine a
David spiegarono che nel contratto tra la Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo e NOVARKA era prevista la limitazione dei rapporti con la stampa. Del
resto la banca, nella persona del signor Balthasar Lindauer, era disposta a
mettersi in contatto con l’appaltatore generale e a dare il benestare a una
conversazione con il corrispondente di «Novaja Gazeta», alle condizioni però
che le domande avrebbero riguardato esclusivamente gli aspetti tecnici del
progetto. A disturbare Londra non mi sono messa. Anche senza di loro alla
Centrale di dépliant illustrativi a colori sull’arco e la sua unicità ce ne
sono già in abbondanza…
Inoltre Viktor Nikolaevič Zalizeckij, vicecapo del
progetto di costruzione, mi ha condotto per l’area cantieri, dandomi la
possibilità di meravigliarmi del severissimo regime di accesso e di controllo,
delle giganti volte di metallo (i tubi arrivano dall’Italia, via mare), delle
possenti fondamenta (il cemento lo portano dalla Francia), dei martinetti
olandesi, delle gru americane, dei rivestimenti turchi e della generale scarsità
di persone. Il risveglio evidentemente è previsto per la primavera con la
prossima tranche. Qui è raccolta una sorta di internazionale di ingegneri e
tecnici di 20 paesi. Ci sono perfino dei costruttori filippini, tanto che è
necessario mantenere un vasto organico di interpreti.
– In ogni caso predomina il personale ucraino, – ha
precisato Viktor Nikolaevič. – Gli appaltatori hanno messo su un concorso sul
posto, come in un istituto teatrale!
Ci siamo fotografati nelle vicinanze del recinto di
filo spinato, dietro al quale c’è la parte “sporca” del territorio con il
“sarcofago” nel mezzo. Zalizeckij ha chiamato l’ingegnere tecnico per la sicurezza
con il dosimetro: durante il turno ha accumulato solo 3 microsievert su 100
ammessi dalle normative. Forse è per questo che anche i rappresentanti dei paesi
donatori una volta avevano fatto qui una foto ricordo di gruppo: senza
copricapo, alcuni in maniche corte. Mentre i normali turisti stranieri, che
pagano le tasse con le escursioni nella zona (il “Complesso speciale Cernobyl”
offre pure questi servizi), succede che indossino le maschere antigas al punto
di controllo “Ditjatki” e vadano in giro con esse. Tutto dipende dal fondo
radioattivo, che si accentua o affievolisce a seconda dell’evento…
Alla vigilia di Capodanno, con alcune centinaia di
turnisti-ucraini sono stati regolati i conti: fine del contratto. Hanno provato
a metter su un picchetto, un meeting, ma senza troppa convinzione. Ciascuno in
segreto sperava di ottenere di nuovo il lavoro, nonostante che la posizione
della gestione occidentale fosse nota: un numero elevato di “aborigeni” ostacola
l’intensità del lavoro. Esiste inoltre il timore che essi in seguiti possano
andare a rimpinguare le file dei “cernobyliani”, esigendo cure, indennizzi e
pensioni previsti dalla legge.
– Per i francesi c’è una mensa a parte. A loro danno
le cotolette, a noi le brodaglie, come ai porci! – mi diceva indignato il
costruttore Vladimir Grygoriv. – I francesi, finito il turno, vengono portati
nella cittadina “pulita”di Slavutič, mentre noi restiamo a Cernobyl, negli ex
pensionati per studenti. Nella nostra terra i padroni sono forestieri, e noi
cosa siamo, schiavi?!
Non avendo ottenuto giustizia, Grygoriv si è rivolto
con i suoi amici ai deputati di “Svoboda” (“Libertà”), la cui posizione
negativa riguardo all’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione europea è nota.
«Portate un po’ di pazienza! – gli hanno incoraggiati i nazionalisti. – Faremo
ordine anche alla Centrale di Cernobyl!».
Secondo Dmitrij Gennad’evič Bobro, primo
vicepresidente dell’Agenzia statale ucraina per la direzione della Zona
d’interdizione, l’interesse per il territorio da parte degli scienziati
occidentali è scemato.
– Tutto quello che riguarda la migrazione dei
radionuclidi e lo stato del territorio in quanto tale è stato studiato. Gli
aspetti nuovi, interessanti sono legati all’effetto sulla biocenosi del fattore
radioattivo – quanto velocemente si adattino la terra e gli organismi viventi.
Fukushima non ci fa concorrenza. Loro per fortuna non hanno avuto
contaminazione da elementi transuranici, da plutonio anzitutto.
Ma in ricerche di questo tipo gli investitori i soldi
non ce li mettono. Parimenti che nei progetti di rilancio economico elaborati
dagli esperti dell’Unione europea: ad esempio, quello di piantare la zona a
colza. Gli esperti, a differenza di Dmitrij Bobro, non sanno forse che negli
anni seguenti all’incidente non solo i campi, ma anche i villaggi evacuati e
spopolati sono stati invasi dal bosco, che l’80% del territorio è oggi costituito
di boschi fitti di conifere e latifoglie, che periodicamente bruciano a causa
di incendi…
Malgrado questo, le competenze della Zona e della Centrale
di recente sono state trasferite dal Ministero delle Emergenze al modesto
ministero dell’Ecologia. Il processo di costruzione di un nuovo “confinement”
di sicurezza, dilatato nel tempo, è dunque soltanto da benedire. Esso provvede
egregiamente a mantenere in vita i sistemi di una serie di enti ucraini. A
proposito, per un concorso di circostanze il 2015 sarà l’anno delle elezioni
presidenziali. Dopodiché, la
Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo potrà nuovamente denunciare
una “disgustosa gestione” da parte di Kiev. Le scadenze verranno posposte, i
donatori cacceranno altri soldi… Infine verrà indetta una gara d’appalto internazionale
per l’elaborazione del metodo d’estrazione del contenuto del “sarcofago”.
Ne basterà per un secolo.
Zona d’interdizione di Cernobyl - Kiev
Data: 11.02.2013
Autore: Ol’ga Musafirova
Fonte: www.novayagazeta.ru
Traduzione: Stefano Fronteddu
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