L’ISOLA CHE NON C’È
La
decisione di prendere parte all’esperienza del campo estivo di Novokemp è
maturata durante il mio secondo anno di università, dalla necessità di
confrontarmi direttamente con l’oggetto principale dei miei studi: la lingua
russa. Tuttavia, alla fine dell’esperienza che andrò a descrivere ciò che mi è
rimasto non è esclusivamente un miglioramento delle mie conoscenze
linguistiche, ma anche e soprattutto un grande bagaglio di esperienza umana.
La
mia esperienza in Russia comincia in solitudine il 4 agosto 2015 all’aeroporto
Domodedovo di Mosca. Per questioni economiche e di indecisione personale,
infatti, non avevo voluto prendere parte al breve soggiorno che i miei compagni
di turno avevano organizzato a Mosca, prima di recarsi definitivamente a
Novokemp. Appena atterrato ho provato un sentimento di spaesamento e
piccolezza, dettato forse anche dalle tante letture che descrivevano il mondo
Russo (forse più quello sovietico) come Grande ed Imponente. Oltrepassato il
primo impatto con il Nuovo Mondo e declinate le famose avance del solito tassista russo pronto a “offrirti” un comodo
passaggio per il centro, mi sono diretto verso la Kievskij vokzal, armato delle mie preziose indicazioni della metro
datemi da Stefano, il nostro “corrispondente dall’Italia”. Informazioni
preziosissime. Immaginate, infatti, un ragazzo daltonico disperso nella
multicolore metro di Mosca e avrete il quadro della situazione. Una vera manna
dal cielo!
Dopo
aver aspettato i miei compagni di turno (in seguito diverranno “amici”) per
un’oretta alla Kievskij vokzal
leggendo “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, giunge il momento di salire sul
famoso treno che ci avrebbe allontanato dalla Russia da cartolina e che ci
avrebbe invece fatto avvicinare a quella ricoperta da enormi distese di
campagne e da piccoli paesini.
Dopo
una piccola chiacchierata con Camilla, Elena, Gabriele e Ilaria e aver cenato
con cibo di “fortuna”, giunge il momento di dormire nei nostri posti riservati.
La notte è passata velocemente, con qualche risveglio di troppo per essere
sicuri che le 5.15 (orario del nostro arrivo a Uneča) non fossero passate. 4.55:
Gabriele si affaccia nel mio scompartimento e mi trova sveglio. È il momento di
scendere!
Ad
accoglierci troviamo le due figure fondamentali del campo, Saša, il direttore,
e Katja, la nostra “mamma russa” agghindata con un giubbino giallo impossibile
da non intravedere. Dopo essere arrivati al campo al termine di un tragitto in
macchina in cui ho sperimentato per la prima volta le famose coperture in
asfalto russe, e dopo un sonnellino ristoratore nella nostra abitazione, era
giunto il momento di visitare il Lager. Accompagnati dalla musica, elemento
costante e fondamentale all’interno della vita del campo, ho iniziato a conoscere
il luogo che per circa venti giorni sarebbe stata la mia casa.
Casette
in legno (7 per le “famiglie” in cui erano suddivisi i bambini), sentieri
alberati, un parco giochi, una mensa, una piccola piscina, una zona per
stendere i vestiti, i bagni, la “casa del direttore”, quella del medico e un
magazzino pieno zeppo di vestiti da utilizzare durante le attività. Tutto
quello di cui avrei potuto avere bisogno si trovava lì dentro. Sin dal primo
momento in cui ho visto il campo, tuttavia, questo ha evocato in me immagini
familiari. L’immagine che continuava a rievocarmi, come un frame che ritorna
continuamente in un film, infatti, era quella dell’“Isola che non c’è” di Peter
Pan: un luogo sperduto in mezzo ad un bosco, di cui pochi sanno l’esistenza ma
avvolto da un’aurea magica e festosa. L’elemento più comune tra i due luoghi
rimanevano comunque i bambini.
Le
giornate all’interno del lager si susseguivano tutte con un programma ben
preciso, che si ripete uguale quasi tutti i giorni e in cui a variare,
ovviamente, sono le attività proposte. Gli organizzatori del campo sono
estremamente meticolosi nel rispetto della “tabella di marcia” e dello
svolgimento dei giochi. A proposito di questi ultimi, nell’ultima riunione svoltasi
al campo il giorno della mia partenza, ho voluto complimentarmi con coloro che
si occupavano della loro organizzazione, preparazione e buona riuscita. Ciò che
più mi ha sorpreso è stato il fatto che i giochi proposti fossero spesso molto
semplici, che coinvolgessero attivamente ogni bambino e che richiedessero quasi
sempre uno sforzo di squadra per il raggiungimento dell’obiettivo. Nonostante
la loro semplicità i bambini erano sempre tutti entusiasti di prenderne parte.
Questo
mi ha riportato alla mia esperienza di animatore negli oratori italiani. La
riflessione che ne è scaturita mi ha portato a pensare che in Italia i bambini
stiano perdendo la dimensione del gioco “fisico” e di movimento, di qualcosa
che non implichi necessariamente uno strumento elettronico o moderno.
L’entusiasmo che i bimbi russi dimostravano nelle attività era appagante, ingenuo
e puro. Nessuno di loro veniva rimproverato per l’utilizzo del cellulare
durante un gioco o perché non voleva prendervi parte. Ne conseguiva che la
nostra soddisfazione fosse altrettanto grande.
Ho
detto molte volte durante la mia permanenza al lager che Novokemp ha
risvegliato il mio lato fanciullesco, allontanandomi da ogni problema lasciato
in Italia, e che ha fatto rinascere la mia voglia di giocare e di mettermi al
pari coi bambini.
Il
compito di cui noi italiani eravamo responsabili era quello di organizzare dei
piccoli laboratori in cui proponessimo qualche attività di nostro interesse.
Io, personalmente, non tenevo un mio laboratorio, ma mi preoccupavo di essere
una sorta di “jolly” (così ero stato definito), intento ad aiutare i miei amici
nelle loro attività con la lingua giapponese, con la danza e con i laboratori
artistici o pronto a disturbare, insieme al mio fedele compagno Gabriele, la
quiete delle lezioni di yoga tenute da Ilaria (altra nostra amica italiana al
campo). Insomma, non ci annoiavamo mai!
Essere
lontano da una metropoli fa sì che si possano sperimentare le principali e vere
pietanze russe. I pranzi e le cene alla mensa, che comprendevano sempre delle
lezioni di lingua russa con chi a turno capitava con noi italiani, erano piacevolissime.
Le cuoche, inoltre, non ci privavano di bis, tris e supplementi aggiuntivi sui
piatti (forse apprezzavano anche loro che degli italiani amassero così tanto la
loro cucina). Da annoverare negli aspetti culinari altri due avvenimenti: i
festeggiamenti del Ferragosto nella notte del 15 agosto (diventata oramai festa
nazionale anche a Novokemp) e le serate “condite” con deliziosi spiedini di
provenienza armena, gli шашлики (šašlykì).
Parte
caratteristica delle giornate a Novokemp era La “тихий час” (trad. “ora del silenzio”). Durante
questa ora e mezza di pausa, in cui il silenzio diventa padrone del campo e ai
bambini viene concesso del tempo per riposare, erano frequenti gli inviti da
parte degli animatori e dei bambini a far merenda all’interno delle loro
casette. (Per la quantità di tè bevuta durante quei pomeriggi sarebbe consono
proporre un cambiamento di nome in “чайный час”, “l’ora del tè”). Durante la “тихий час” i bambini raccontavano di loro,
delle loro famiglie, di quello che amavano fare e dei loro eventuali viaggi in
Italia. Era curioso osservare come alcuni cercassero di mettersi in mostra e di
farsi notare da questi “strani italiani” e di come alcuni invece preferissero
restare nella loro intimità, non esporsi pubblicamente, ma instaurare comunque
un rapporto di mutuo affetto che potevano comunicarti privatamente.
L’ultimo
aspetto su cui vorrei soffermarmi nel racconto della mia esperienza è
ovviamente quello linguistico. Come
si sarà già letto dalle testimonianze di chi prima di me ha compiuto questo
viaggio, la prima volta in Russia, e in generale in un paese straniero, serve
ad assottigliare o a distruggere la paura di esprimersi e di sbagliare. I primi giorni passati a Mosca e a
Novokemp mostravano una persona completamente diversa da quello che sono
realmente: silenziosa. Le uniche situazioni in cui era possibile sentirmi
parlare erano quelle di saluto, di assenso o di rifiuto, di esclamazione o di
ringraziamento. Il Dj del campo mi aveva infatti definito “молчаливый” (silenzioso). Dall’esterno poteva
trasparire un senso di inadeguatezza al luogo in cui mi trovavo, quando invece
il problema era solamente quello di comunicazione ed esternazione dei pensieri.
Col
passare dei giorni ho iniziato a non pensare troppo drasticamente ai miei
errori, richiedendo di essere corretto quando parlavo. Era una sorta di mutuo
patto tra il parlante e l’interlocutore. Ad aiutarmi nell’elaborazione di
concetti in russo e ad assimilare più parole di quante ne avrei mai imparate
stando sui libri hanno contribuito anche le serate musicali: davanti al fuoco,
chitarra alla mano e sfide canore in cui si alternavano pezzi celebri italiani
e russi.
I
miglioramenti linguistici riscontrati a Novokemp hanno avuto un’ulteriore
conferma nell’esame orale di russo sostenuto al mio ritorno in Italia. La
docente che mi ha esaminato, infatti, ha riscontrato una maggiore “libertà” e
sicurezza nel parlare. Probabilmente tutto ciò che non avevo detto nel lager è
saltato fuori al momento giusto nel giorno dell’esame.
Lasciare
Novokemp è stato molto difficile. Per l’intensità delle emozioni provate, per
la crescita umana riscontrata e per l’utilità che ho provato nell’aiutare gli
altri animatori mi sono sentito di equiparare questa esperienza a una sorta di
cammino spirituale. Sono contento di aver speso la mia prima volta in Russia
lontano dagli edifici, dai monumenti e dal “turismo”, e di aver sostituito
tutto questo con un miglioramento linguistico e con la conoscenza della vera
Russia.
Raccomando
l’esperienza a Novokemp per tutto quello che ho elencato precedentemente, per i
bambini, la disponibilità e l’accoglienza russa, per i giochi e la
spensieratezza. Lo raccomando soprattutto perché quando sarete lontani non
saprete perché proverete nostalgia e quando vi chiederanno di raccontare non
saprete da dove cominciare. È il segno che è stata l’esperienza giusta per voi!
Marco Milo - 20 anni
Università Statale di
Milano
(sede di Sesto San Giovanni)
Mediazione linguistica e
culturale