Autore: Konstantin Popov, pittore
Luogo: Novozybkov (regione di Brjansk, Russia)
Data: 2011
Traduzione: S.F.
Автор: Константин Попов, художник
Место: Новозыбков (Брянская обл., Россия)
Дата: 2011
Перевод: С.Ф.
PERIODO DI DIMEZZAMENTO
Quando ritorno con la memoria agli anni di un quarto di secolo fa, niente mi
agita i sentimenti come gli avvenimenti che si sono susseguiti a
qualche anno di distanza dall’incidente di Cernobyl (era l’inizio degli
anni Novanta), e precisamente quella catena di precipitosi spopolamenti
dei centri abitati della provincia che erano capitati nella zona di
contaminazione radioattiva. Svjatsk, Makusy, Globočka, Borok, Mošok,
Griva, Babaki – più di una decina di paesi, villaggi, sobborghi
terminarono la loro esistenza dopo Cernobyl.
E
così è accaduto che di venire a trovarmi nel più grande di questi
villaggi, Svjatsk, un tempo borgo, mi riuscì per la prima volta
solamente quando da esso se n’erano già andati via quasi tutti. Ancora
stavano in piedi le case, sopra il villaggio si levava l’unica chiesa
della provincia funzionante e non distrutta negli anni della lotta
antireligiosa. Nella centrale Piazza Rossa c’era il monumento ai
conterranei caduti negli anni della guerra. Questo sembiante di madre
addolorata lo si può vedere oggi a Novozybkov, dove l’hanno spostato
relativamente di recente. E sempre qui, a Novozybkov, nel giardino
pubblico hanno collocato anche il busto di bronzo di David Dragunskij,
nativo di Svjatsk, al quale, come a tutti i Due volte Eroi dell’Unione,
era stato posato un monumento nella sua piccola patria. Anch’esso si
trovava allora sulla Piazza Rossa, come ora ricoperto senza pretese e
scialbamente di vernice nera. E forse è questo ad aver salvato il
monumento dagli amanti dei rottami colorati.
Per
le vie camminavano ancora alcuni rari abitanti, e l’autobus di linea
faceva regolari corse di andata e ritorno al villaggio. Con la mia
cassettina da pittore sulle spalle andavo in giro a scegliere
l’ennesimo, in senso letterale e figurato, soggetto “che se ne va”.
L’odore di “putrefazione” e le tracce dello sciacallaggio avevano già
toccato quest’antico villaggio come una creatura agonizzante, indifesa
davanti al volto della fine incombente. Le finestre stavano lì con i
vetri sfondati e non di rado con i telai strappati, in stridente
contrasto con le tendine ancora a esse appese. Attraverso i portoni
scardinati e gli steccati gettati a terra e con le assi divelte
nereggiavano i vani delle porte spalancate. A entrare dentro non mi
decidevo, qualcosa mi tratteneva – come l’arrivo di un estraneo o di un
ospite non invitato al capezzale di un morente. Soltanto una volta, per
proteggermi dalla pioggia e lottato e vinto con le mie resistenze,
varcai la soglia. Agli occhi mi si gettarono la stufa russa
semidistrutta in mezzo alla stanza, dalla quale qualcuno aveva già
iniziato a portare via i mattoni, le cose sparpagliate tutt’intorno, i
bauli aperti, vecchi vestiti, scarpe. Sotto la finestra c’era un
semplice tavolo di assi, intorno al quale erano sparse delle sedie
capovolte. Alle pareti erano ancora appese delle riproduzioni cartacee
di quadri in cornici artigianali, nell’angolo erano posati dei
portaicone vuoti. Tutto quel disordine era permeato di una sensazione di
completa desolazione e abbandono. Pareva che da lì gli abitanti fossero
scappati come colti di sorpresa da un nemico. Di tutte le cose che vidi
a Svjatsk durante tutti quegli anni quello spettacolo di dimora
abbandonata è probabilmente quello che più mi è rimasto impresso nella
memoria.
La
chiesa dei vecchi credenti della Santissima Vergine dell’Assunzione,
celebre in tutto il circondario, a quel tempo era già stata depredata.
L’iconostasi vuota era costellata dai buchi delle immagini staccate e
portate chissà dove. E tuttavia nel tempio rimaneva ancora l’atmosfera
di unione con Dio e l’aroma dell’incenso non era ancora svanito grazie
ai muri ricoperti di travi di pino. Ci venivano ancora delle vecchiette,
silenziose e tristi, e a lungo stavano lì in piedi davanti all’altare
dismesso, magari ripercorrendo dentro di sé gli anni vissuti e
congedandosi mentalmente da tutto ciò che era stato loro caro e amato.
Svettava
ancora nel villaggio pure il nuovo edificio di mattone a due piani
della Casa rurale della Cultura, costruito un anno dopo la catastrofe di
Cernobyl, nel 1987, alla cui inaugurazione venne lo stesso Dragunskij. I
suoi mobili costosi, le sedie foderate di bel tessuto della sala teatro
erano sparse tutt’intorno, oramai non più necessarie a nessuno.
Qui
m’incontrai con Anatolij Pavlovič Vorob’ëv, con il quale già ci
conoscevamo, famoso giornalista di Mosca, redattore del giornale
«Gudok», che veniva a trascorrere le ferie estive nel suo paese natio.
Lui si fermava nella casa dei suoi genitori, già abbandonata, che si
trovava, a proposito, accanto alla “casa di Dragunskij”. Qui gli
riusciva di scrivere bene, a quei tempi i suoi articoli e i suoi saggi
letterario-etnografici venivano spesso pubblicati sul giornale locale
“Majak”, dove un tempo lui aveva iniziato la sua attività creativa. Ed è
proprio in seguito alla lettura dei suoi ricordi sul passato e dei suoi
reportage permeati di dolore sul presente di Svjatsk che mi venne
voglia di andarci.
Le
lunghe conversazioni con lui colpivano per la sua capacità di penetrare
nella sostanza dei problemi. Ricordo con quanto fervore cercava di
dimostrare che sarebbe bastato sostituire la copertura sui tetti delle
case, impregnatasi di cesio radioattivo, e sarebbe anche costato molto
meno che non trasferire tutti e tutto, e il villaggio avrebbe potuto
sopravvivere. Mi pareva un moderno Don Chisciotte che da solo si lancia a
combattere per un destino di un’altezza senza nome sulla carta delle
azioni di guerra il cui nome – non temiamo di dirlo – è la “guerra con
il proprio popolo”. E adesso che di profeti e difensori se ne diffondono
a iosa, voglio riportare una citazione da un breve articolo di Anatolij
Pavlovič scritto per il catalogo della mia prima mostra di opere
“cernobyliane”:
«La
radice delle attuali disgrazie noi per abitudine la cerchiamo nella
catastrofe di Cernobyl di per se stessa, quando invece dovremmo cercarla
in una catastrofe di tutt’altro genere, nel deragliamento della nostra
morale pubblica. La politica statale nel corso di vari decenni, per
quanto sia amaro oggi riconoscerlo, si è sviluppata senza tenere conto
dell’esperienza e delle speranze vitali dei contadini, anzi andando
contro di essi. Dietro l’apparenza delle trasformazioni socialiste della
campagna si è innescata una totale demolizione dell’ordinamento di vita
che ha portato all’erosione della base culturale stessa sulla quale si
reggeva da tempi immemorabili la campagna russa. I villaggi spopolati,
la terra inselvatichita – sono il castigo per la violenza,
l’arbitrarietà, l’incompetenza e l’insensibilità nei confronti dei
contadini, a cominciare dalla collettivizzazione, poi con la
liquidazione dei villaggi “senza prospettiva”, per finire con i
trasferimenti di Cernobyl… il cui principio fondamentale è diventato:
dovunque e a casaccio, oppure salvati come puoi».
In
effetti, è difficile esprimerlo meglio. E anche oggi, dopo molti anni,
tutto questo suona non meno attuale. E in fondo tutta la storia degli
avvenimenti cernobyliani non è che una catena di decisioni
contraddittorie e di sparate da un estremo all’altro, un occultamento di
segreti a quei tempi noti a tutti e un ossessionante citare sempre le
stesse verità “immortali”. Con sicurezza oggi si può dire che Svjatsk è
caduta come la vittima di turno sacrificata sull’altare della nostra
politica statale (o meglio, antistatale), nel linguaggio popolare
chiamata sabotaggio. Allo scopo di salvare le proprie cariche e i propri
benefici nessuno prestava attenzione alla gente, la quale venne
semplicemente calpestata. Esattamente come nel maggio del 1986, quando,
pur sapendo della contaminazione radioattiva e di come tutti i dosimetri
fossero andati fuori scala, ugualmente condussero gli abitanti della
città al corteo del 1° maggio, senza averli
avvertiti del pericolo. Forse che non pensavano a se stessi e al loro
benessere? I nomi degli ex primo segretario del comitato cittadino e
presidente del comitato esecutivo, che rispondevano personalmente
dell’attuazione della direttiva “non creare panico e mantenere la
calma”, che non fecero niente per mettere al sicuro i cittadini e presto
di tutta fretta si trasferirono (per non dire scapparono) nel capoluogo
di regione, sono ben noti. Con l’inizio degli anni Novanta cambiò anche
la direzione del potere, ma i principi di comando rimasero gli stessi
di prima, poiché la composizione di coloro che detenevano il potere non
fece altro che “cambiare volto”.
Tutti
coloro che erano rimasti a Svjatsk vivevano nell’angoscia e
nell’incertezza. Chi aspettava l’arrivo o le comunicazioni dei parenti
dai nuovi luoghi di residenza, chi decise di rimanere ancora lì, ma
ormai sempre più spesso cominciarono a venire in visita individui di
tutt’altra risma. A lucrare sui beni abbandonati, in parole povere a
fare dello sciacallaggio, qui da noi per qualche motivo non mancano mai
gli aspiranti. Camion e automobili, motociclette e sidecar – tutti se ne
ripartivano con cassoni e bagagliai stracarichi – chi di materiale da
costruzione, chi di legna, chi di mele e pere. Battevano le asce,
srtidevano le seghe, rintronavano piccozze e picconi. Senza farsi troppi
problemi questi spaccavano le stufe e i muri di mattoni, strappavano
l’ardesia dai tetti, abbattevano le betulle nelle strade e i meli nei
giardini (dagli alberi distesi a terra era più facile raccogliere i
frutti). Spesso, tornando la volta successiva, io non trovavo più molti
edifici che ancora la settimana prima avevo visto coi miei occhi.
Letteralmente a vista d’occhio il villaggio se ne andava nel non essere.
E
come se non bastasse, Svjatsk a poco a poco cominciò a essere popolato
da persone senza fissa dimora. Andavano in giro per il villaggio per lo
più al crepuscolo, non si sapeva dove passassero la notte, dove
mangiassero. Nel giorno dell’arrivo degli impiegati dei servizi sociali
con la pensione per i pochi abitanti rimasti al villaggio, essi si
facevano visibilmente più attivi, entravano la notte nelle porte chiuse e
di giorno, in assenza dei padroni, frugavano da tutte le parti. Queste
cose me le raccontò con una paura non celata una delle abitanti, in
piedi accanto a me, mentre stavo lavorando nella via sul soggetto di
turno. È incredibile, ma avvicinandosi a me ella domandò: «Che cosa
scrive?». Che un pittore con il pennello scrive e non disegna è una cosa
che sanno soltanto le persone a stretto contatto con l’arte. Ma da
queste parole pronunciate da una semplice contadina, insieme al suo
racconto, rimasi semplicemente scosso. Dopo un po’ di tempo Anatolij
Vorob’ëv mi mise al corrente del suo terribile destino. Essa fu uccisa
da uno sconosciuto proprio davanti alla sua casa.
Per
continuare a contemplare quest’agonia di disgregazione non mi bastavano
le forze né il coraggio. A Svjatsk smisi di andarci. Durante questi
anni se ne sono andati via gli ultimi abitanti, è stata bruciata –
proprio alla fine del Ventesimo secolo – la chiesa dell’Assunzione,
monumento architettonico in legno, abbandonato al proprio destino da
tutti, sia dalla chiesa dei vecchi credenti che dall’amministrazione
provinciale, sono state trasportate nel capoluogo le reliquie più
significative rimaste, sono stati completamente smontati o demoliti gli
edifici e le case, tagliati i cavi dell’elettricità e delle
comunicazioni. Svjatsk in quanto centro abitato oggi non esiste più né
sulla carta né nella realtà.
Quale
provvidenza s’è intromessa nel destino per preservare alcuni villaggi e
cancellarne altri dalla faccia della terra? Insieme a Svjatsk sarebbe
dovuto scomparire anche il vicino villaggio di Staryj Vyškov, il cui
livello di contaminazione era esattamente lo stesso di Svjatsk. Al
margine dell’incertezza si trovava la stessa Novozybkov, inserita
nell’elenco dei luoghi con trasferimento obbligatorio. Svjatsk divenne
così il capro espiatorio che venne gettato nella feritoia per tappare
quel buco di malcontento pubblico che veniva a galla per tutta la
precedente, confusa e infantile, epopea cernobyliana “da governatorato”.
Una via d’uscita probabilmente ci sarebbe stata, ma nessuno dei
dirigenti locali e regionali voleva complicarsi la vita con problemi
superflui, tanto più con il rischio di perdere le loro poltrone calde e
già ben riscaldate. A proposito, neanche un centro abitato della zona
bielorussa confinante, nella regione di Gomel’, che si trova a soli due
chilometri da Svjatsk, venne evacuato, sebbene le condizioni anche là
non fossero certo migliori.
Ma
è rimasta ancora la memoria delle persone. Ed essa non la si può in
alcun modo annientare nella coscienza. Sono rimasti i luoghi di unione
spirituale di tutti coloro che in un modo o nell’altro erano legati a
questo paese. Come prima là sgorga dalla terra la fonte Svjatoj
(“benedetta”), dal cui nome venne un tempo chiamato il villaggio; come
prima, vi si seppelliscono i morti, e nei cimiteri gli ex abitanti ogni
anno vengono a fare il banchetto funebre per commemorare i defunti; come
prima, si radunano per l’Assunzione della Santissima Vergine, la festa
patronale del tempio bruciato, tutti coloro che hanno a cuore la memoria
di Svjatsk.
Ci
sono tornato anch’io una volta, dopo quasi vent’anni. È difficile
rendere tutte le sensazioni che mi hanno assalito dopo una così lunga
assenza. Mi ha meravigliato la targa alla memoria collocata al posto
dell’ex tempio, mi ha rallegrato la forte unione spirituale delle
persone che si erano lì riunite, mi ha dato speranza l’uscita di un
libro sulla storia del paese. E perfino il segnale stradale artigianale
con il nome del villaggio, messo al posto di quello ufficiale, infonde
almeno un certo ottimismo. Ci si convince che questa è una prova mandata
dall’alto all’ex Svjatsk, senza peccati davanti agli uomini e a Dio,
come a dire: «Su, abbiate ancora un briciolo di pazienza… verrà il
tempo, tutto si aggiusterà». Una ex abitante di Svjatsk mi ha confidato
il suo segreto: «Se adesso annunciassero che si può tornare al
villaggio, io partirei subito a piedi!». In effetti, è forse ancora
prematuro mettere una croce definitiva su Svjatsk? Tanto ci toccherà
comunque raccogliere i sassi.
Un
quarto di secolo è il periodo di dimezzamento del più attivo tra gli
isotopi fuoriusciti dal reattore del quarto blocco, il cesio
radioattivo. Durante questo periodo è decaduto per metà non soltanto il
cesio, ma è stata anche “dimenticata” metà della verità su quegli anni.
Quanto tempo sta infatti durando il decadimento della coscienza,
dell’etica e della morale, tanto delle nostre autorità locali e
regionali come di quelle a più alto livello, preposte sopra di noi e
chiamate a far rispettare questa stessa memoria e quelle stesse norme
per far ritornare le cose sui propri binari. E tuttavia non sono
riusciti a escogitare niente di serio né di sensato.
Le
rappresentazioni che ogni anno vengono allestite per l’anniversario
dell’incidente sulla nostra piazza centrale, chiamate a esprimere con
uno spettacolo da strada la tragicità di ciò che accadde molti anni fa,
non sono altro che uno show teatrale. Per dirla più semplicemente, una
finzione banalissima, un ciuccio per la soddisfazione provvisoria
dell’istinto di suzione, con una folla di sfaccendati, impiegati
sottratti al lavoro e studenti e scolari dalle lezioni, con bandiere e
striscioni, che ci fan tornare alla memoria le nostre manifestazioni
festive d’un tempo, altrettanto vuote e sconclusionate rassegne
politico-ideologiche delle “realizzazioni”. Soltanto quali
realizzazioni?
Gli
ospiti altolocati che vengono qui in visita non mettono il naso oltre
il monumento della “Madre addolorata”; di promesse sempre tantissime, e
invece di organizzare qualcosa di efficace, per esempio andare a vedere
le terre abbandonate e incolte, un tempo feconde e ben tenute, oppure
visitare villaggi e paesi bruciati dall’incendio radioattivo allo scopo
di restituire tutto questo alla gente… scusate un po’… Fino a quando in
sostanza questo pezzettino di terra ai confini estremi della Russia
rimarrà la pietra d’inciampo per tutto il gigantesco paese con le sue
immense risorse e possibilità? E osservando da fuori questo pathos
convulso, per quanto sia triste rendersene conto, bisogna constatare che
tutte le parole gratuite degli uni e i mugolii degli altri non
accennano ancora a finire, e andranno avanti fino a quando si potrà
ancora mungere la “mucca di Cernobyl” e su questo accumulare un capitale
finanziario e politico. È possibile, fino al completo decadimento.
17.04.2011
Konstantin Popov
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