Il blog "Le Russie di Cernobyl", seguendo una tradizione di cooperazione partecipata dal basso, vuole essere uno spazio in cui: sviluppare progetti di cooperazione e scambio culturale; raccogliere materiali, documenti, articoli, informazioni, news, fotografie, filmati; monitorare l'allarmante situazione di rilancio del nucleare sia in Italia che nei paesi di Cernobyl.

Il blog, e il relativo coordinamento progettuale, è aperto ai circoli Legambiente e a tutti gli altri soggetti che ne condividono il percorso e le finalità.

"Le Russie di Cernobyl" per sostenere, oltre i confini statali, le terre e le popolazioni vittime della stessa sventura nucleare: la Bielorussia (Russia bianca), paese in proporzione più colpito; la Russia, con varie regioni rimaste contaminate da Cernobyl, Brjansk in testa, e altre zone con inquinamento radioattivo sparse sul suo immenso territorio; l'Ucraina, culla storica della Rus' di Kiev (da cui si sono sviluppate tutte le successive formazioni statali slavo-orientali) e della catastrofe stessa.

28/07/16

PERIODO DI DIMEZZAMENTO - ПЕРИОД ПОЛУРАСПАДА

Autore: Konstantin Popov, pittore
Luogo: Novozybkov (regione di Brjansk, Russia)
Data: 2011
Traduzione: S.F.

Автор: Константин Попов, художник
Место: Новозыбков (Брянская обл., Россия)
Дата: 2011
Перевод: С.Ф.


PERIODO DI DIMEZZAMENTO

Quando ritorno con la memoria agli anni di un quarto di secolo fa, niente mi agita i sentimenti come gli avvenimenti che si sono susseguiti a qualche anno di distanza dall’incidente di Cernobyl (era l’inizio degli anni Novanta), e precisamente quella catena di precipitosi spopolamenti dei centri abitati della provincia che erano capitati nella zona di contaminazione radioattiva. Svjatsk, Makusy, Globočka, Borok, Mošok, Griva, Babaki – più di una decina di paesi, villaggi, sobborghi terminarono la loro esistenza dopo Cernobyl.

E così è accaduto che di venire a trovarmi nel più grande di questi villaggi, Svjatsk, un tempo borgo, mi riuscì per la prima volta solamente quando da esso se n’erano già andati via quasi tutti. Ancora stavano in piedi le case, sopra il villaggio si levava l’unica chiesa della provincia funzionante e non distrutta negli anni della lotta antireligiosa. Nella centrale Piazza Rossa c’era il monumento ai conterranei caduti negli anni della guerra. Questo sembiante di madre addolorata lo si può vedere oggi a Novozybkov, dove l’hanno spostato relativamente di recente. E sempre qui, a Novozybkov, nel giardino pubblico hanno collocato anche il busto di bronzo di David Dragunskij, nativo di Svjatsk, al quale, come a tutti i Due volte Eroi dell’Unione, era stato posato un monumento nella sua piccola patria. Anch’esso si trovava allora sulla Piazza Rossa, come ora ricoperto senza pretese e scialbamente di vernice nera. E forse è questo ad aver salvato il monumento dagli amanti dei rottami colorati.

Per le vie camminavano ancora alcuni rari abitanti, e l’autobus di linea faceva regolari corse di andata e ritorno al villaggio. Con la mia cassettina da pittore sulle spalle andavo in giro a scegliere l’ennesimo, in senso letterale e figurato, soggetto “che se ne va”. L’odore di “putrefazione” e le tracce dello sciacallaggio avevano già toccato quest’antico villaggio come una creatura agonizzante, indifesa davanti al volto della fine incombente. Le finestre stavano lì con i vetri sfondati e non di rado con i telai strappati, in stridente contrasto con le tendine ancora a esse appese. Attraverso i portoni scardinati e gli steccati gettati a terra e con le assi divelte nereggiavano i vani delle porte spalancate. A entrare dentro non mi decidevo, qualcosa mi tratteneva – come l’arrivo di un estraneo o di un ospite non invitato al capezzale di un morente. Soltanto una volta, per proteggermi dalla pioggia e lottato e vinto con le mie resistenze, varcai la soglia. Agli occhi mi si gettarono la stufa russa semidistrutta in mezzo alla stanza, dalla quale qualcuno aveva già iniziato a portare via i mattoni, le cose sparpagliate tutt’intorno, i bauli aperti, vecchi vestiti, scarpe. Sotto la finestra c’era un semplice tavolo di assi, intorno al quale erano sparse delle sedie capovolte. Alle pareti erano ancora appese delle riproduzioni cartacee di quadri in cornici artigianali, nell’angolo erano posati dei portaicone vuoti. Tutto quel disordine era permeato di una sensazione di completa desolazione e abbandono. Pareva che da lì gli abitanti fossero scappati come colti di sorpresa da un nemico. Di tutte le cose che vidi a Svjatsk durante tutti quegli anni quello spettacolo di dimora abbandonata è probabilmente quello che più mi è rimasto impresso nella memoria.

La chiesa dei vecchi credenti della Santissima Vergine dell’Assunzione, celebre in tutto il circondario, a quel tempo era già stata depredata. L’iconostasi vuota era costellata dai buchi delle immagini staccate e portate chissà dove. E tuttavia nel tempio rimaneva ancora l’atmosfera di unione con Dio e l’aroma dell’incenso non era ancora svanito grazie ai muri ricoperti di travi di pino. Ci venivano ancora delle vecchiette, silenziose e tristi, e a lungo stavano lì in piedi davanti all’altare dismesso, magari ripercorrendo dentro di sé gli anni vissuti e congedandosi mentalmente da tutto ciò che era stato loro caro e amato.

Svettava ancora nel villaggio pure il nuovo edificio di mattone a due piani della Casa rurale della Cultura, costruito un anno dopo la catastrofe di Cernobyl, nel 1987, alla cui inaugurazione venne lo stesso Dragunskij. I suoi mobili costosi, le sedie foderate di bel tessuto della sala teatro erano sparse tutt’intorno, oramai non più necessarie a nessuno.

Qui m’incontrai con Anatolij Pavlovič Vorob’ëv, con il quale già ci conoscevamo, famoso giornalista di Mosca, redattore del giornale «Gudok», che veniva a trascorrere le ferie estive nel suo paese natio. Lui si fermava nella casa dei suoi genitori, già abbandonata, che si trovava, a proposito, accanto alla “casa di Dragunskij”. Qui gli riusciva di scrivere bene, a quei tempi i suoi articoli e i suoi saggi letterario-etnografici venivano spesso pubblicati sul giornale locale “Majak”, dove un tempo lui aveva iniziato la sua attività creativa. Ed è proprio in seguito alla lettura dei suoi ricordi sul passato e dei suoi reportage permeati di dolore sul presente di Svjatsk che mi venne voglia di andarci.

Le lunghe conversazioni con lui colpivano per la sua capacità di penetrare nella sostanza dei problemi. Ricordo con quanto fervore cercava di dimostrare che sarebbe bastato sostituire la copertura sui tetti delle case, impregnatasi di cesio radioattivo, e sarebbe anche costato molto meno che non trasferire tutti e tutto, e il villaggio avrebbe potuto sopravvivere. Mi pareva un moderno Don Chisciotte che da solo si lancia a combattere per un destino di un’altezza senza nome sulla carta delle azioni di guerra il cui nome – non temiamo di dirlo – è la “guerra con il proprio popolo”. E adesso che di profeti e difensori se ne diffondono a iosa, voglio riportare una citazione da un breve articolo di Anatolij Pavlovič scritto per il catalogo della mia prima mostra di opere “cernobyliane”:

«La radice delle attuali disgrazie noi per abitudine la cerchiamo nella catastrofe di Cernobyl di per se stessa, quando invece dovremmo cercarla in una catastrofe di tutt’altro genere, nel deragliamento della nostra morale pubblica. La politica statale nel corso di vari decenni, per quanto sia amaro oggi riconoscerlo, si è sviluppata senza tenere conto dell’esperienza e delle speranze vitali dei contadini, anzi andando contro di essi. Dietro l’apparenza delle trasformazioni socialiste della campagna si è innescata una totale demolizione dell’ordinamento di vita che ha portato all’erosione della base culturale stessa sulla quale si reggeva da tempi immemorabili la campagna russa. I villaggi spopolati, la terra inselvatichita – sono il castigo per la violenza, l’arbitrarietà, l’incompetenza e l’insensibilità nei confronti dei contadini, a cominciare dalla collettivizzazione, poi con la liquidazione dei villaggi “senza prospettiva”, per finire con i trasferimenti di Cernobyl… il cui principio fondamentale è diventato: dovunque e a casaccio, oppure salvati come puoi».

In effetti, è difficile esprimerlo meglio. E anche oggi, dopo molti anni, tutto questo suona non meno attuale. E in fondo tutta la storia degli avvenimenti cernobyliani non è che una catena di decisioni contraddittorie e di sparate da un estremo all’altro, un occultamento di segreti a quei tempi noti a tutti e un ossessionante citare sempre le stesse verità “immortali”. Con sicurezza oggi si può dire che Svjatsk è caduta come la vittima di turno sacrificata sull’altare della nostra politica statale (o meglio, antistatale), nel linguaggio popolare chiamata sabotaggio. Allo scopo di salvare le proprie cariche e i propri benefici nessuno prestava attenzione alla gente, la quale venne semplicemente calpestata. Esattamente come nel maggio del 1986, quando, pur sapendo della contaminazione radioattiva e di come tutti i dosimetri fossero andati fuori scala, ugualmente condussero gli abitanti della città al corteo del 1° maggio, senza  averli avvertiti del pericolo. Forse che non pensavano a se stessi e al loro benessere? I nomi degli ex primo segretario del comitato cittadino e presidente del comitato esecutivo, che rispondevano personalmente dell’attuazione della direttiva “non creare panico e mantenere la calma”, che non fecero niente per mettere al sicuro i cittadini e presto di tutta fretta si trasferirono (per non dire scapparono) nel capoluogo di regione, sono ben noti. Con l’inizio degli anni Novanta cambiò anche la direzione del potere, ma i principi di comando rimasero gli stessi di prima, poiché la composizione di coloro che detenevano il potere non fece altro che “cambiare volto”.

Tutti coloro che erano rimasti a Svjatsk vivevano nell’angoscia e nell’incertezza. Chi aspettava l’arrivo o le comunicazioni dei parenti dai nuovi luoghi di residenza, chi decise di rimanere ancora lì, ma ormai sempre più spesso cominciarono a venire in visita individui di tutt’altra risma. A lucrare sui beni abbandonati, in parole povere a fare dello sciacallaggio, qui da noi per qualche motivo non mancano mai gli aspiranti. Camion e automobili, motociclette e sidecar – tutti se ne ripartivano con cassoni e bagagliai stracarichi – chi di materiale da costruzione, chi di legna, chi di mele e pere. Battevano le asce, srtidevano le seghe, rintronavano piccozze e picconi. Senza farsi troppi problemi questi spaccavano le stufe e i muri di mattoni, strappavano l’ardesia dai tetti, abbattevano le betulle nelle strade e i meli nei giardini (dagli alberi distesi a terra era più facile raccogliere i frutti). Spesso, tornando la volta successiva, io non trovavo più molti edifici che ancora la settimana prima avevo visto coi miei occhi. Letteralmente a vista d’occhio il villaggio se ne andava nel non essere.

E come se non bastasse, Svjatsk a poco a poco cominciò a essere popolato da persone senza fissa dimora. Andavano in giro per il villaggio per lo più al crepuscolo, non si sapeva dove passassero la notte, dove mangiassero. Nel giorno dell’arrivo degli impiegati dei servizi sociali con la pensione per i pochi abitanti rimasti al villaggio, essi si facevano visibilmente più attivi, entravano la notte nelle porte chiuse e di giorno, in assenza dei padroni, frugavano da tutte le parti. Queste cose me le raccontò con una paura non celata una delle abitanti, in piedi accanto a me, mentre stavo lavorando nella via sul soggetto di turno. È incredibile, ma avvicinandosi a me ella domandò: «Che cosa scrive?». Che un pittore con il pennello scrive e non disegna è una cosa che sanno soltanto le persone a stretto contatto con l’arte. Ma da queste parole pronunciate da una semplice contadina, insieme al suo racconto, rimasi semplicemente scosso. Dopo un po’ di tempo Anatolij Vorob’ëv mi mise al corrente del suo terribile destino. Essa fu uccisa da uno sconosciuto proprio davanti alla sua casa.

Per continuare a contemplare quest’agonia di disgregazione non mi bastavano le forze né il coraggio. A Svjatsk smisi di andarci. Durante questi anni se ne sono andati via gli ultimi abitanti, è stata bruciata – proprio alla fine del Ventesimo secolo – la chiesa dell’Assunzione, monumento architettonico in legno, abbandonato al proprio destino da tutti, sia dalla chiesa dei vecchi credenti che dall’amministrazione provinciale, sono state trasportate nel capoluogo le reliquie più significative rimaste, sono stati completamente smontati o demoliti gli edifici e le case, tagliati i cavi dell’elettricità e delle comunicazioni. Svjatsk in quanto centro abitato oggi non esiste più né sulla carta né nella realtà.

Quale provvidenza s’è intromessa nel destino per preservare alcuni villaggi e cancellarne altri dalla faccia della terra? Insieme a Svjatsk sarebbe dovuto scomparire anche il vicino villaggio di Staryj Vyškov, il cui livello di contaminazione era esattamente lo stesso di Svjatsk. Al margine dell’incertezza si trovava la stessa Novozybkov, inserita nell’elenco dei luoghi con trasferimento obbligatorio. Svjatsk divenne così il capro espiatorio che venne gettato nella feritoia per tappare quel buco di malcontento pubblico che veniva a galla per tutta la precedente, confusa e infantile, epopea cernobyliana “da governatorato”. Una via d’uscita probabilmente ci sarebbe stata, ma nessuno dei dirigenti locali e regionali voleva complicarsi la vita con problemi superflui, tanto più con il rischio di perdere le loro poltrone calde e già ben riscaldate. A proposito, neanche un centro abitato della zona bielorussa confinante, nella regione di Gomel’, che si trova a soli due chilometri da Svjatsk, venne evacuato, sebbene le condizioni anche là non fossero certo migliori.

Ma è rimasta ancora la memoria delle persone. Ed essa non la si può in alcun modo annientare nella coscienza. Sono rimasti i luoghi di unione spirituale di tutti coloro che in un modo o nell’altro erano legati a questo paese. Come prima là sgorga dalla terra la fonte Svjatoj (“benedetta”), dal cui nome venne un tempo chiamato il villaggio; come prima, vi si seppelliscono i morti, e nei cimiteri gli ex abitanti ogni anno vengono a fare il banchetto funebre per commemorare i defunti; come prima, si radunano per l’Assunzione della Santissima Vergine, la festa patronale del tempio bruciato, tutti coloro che hanno a cuore la memoria di Svjatsk.

Ci sono tornato anch’io una volta, dopo quasi vent’anni. È difficile rendere tutte le sensazioni che mi hanno assalito dopo una così lunga assenza. Mi ha meravigliato la targa alla memoria collocata al posto dell’ex tempio, mi ha rallegrato la forte unione spirituale delle persone che si erano lì riunite, mi ha dato speranza l’uscita di un libro sulla storia del paese. E perfino il segnale stradale artigianale con il nome del villaggio, messo al posto di quello ufficiale, infonde almeno un certo ottimismo. Ci si convince che questa è una prova mandata dall’alto all’ex Svjatsk, senza peccati davanti agli uomini e a Dio, come a dire: «Su, abbiate ancora un briciolo di pazienza… verrà il tempo, tutto si aggiusterà». Una ex abitante di Svjatsk mi ha confidato il suo segreto: «Se adesso annunciassero che si può tornare al villaggio, io partirei subito a piedi!». In effetti, è forse ancora prematuro mettere una croce definitiva su Svjatsk? Tanto ci toccherà comunque raccogliere i sassi.

Un quarto di secolo è il periodo di dimezzamento del più attivo tra gli isotopi fuoriusciti dal reattore del quarto blocco, il cesio radioattivo. Durante questo periodo è decaduto per metà non soltanto il cesio, ma è stata anche “dimenticata” metà della verità su quegli anni. Quanto tempo sta infatti durando il decadimento della coscienza, dell’etica e della morale, tanto delle nostre autorità locali e regionali come di quelle a più alto livello, preposte sopra di noi e chiamate a far rispettare questa stessa memoria e quelle stesse norme per far ritornare le cose sui propri binari. E tuttavia non sono riusciti a escogitare niente di serio né di sensato.

Le rappresentazioni che ogni anno vengono allestite per l’anniversario dell’incidente sulla nostra piazza centrale, chiamate a esprimere con uno spettacolo da strada la tragicità di ciò che accadde molti anni fa, non sono altro che uno show teatrale. Per dirla più semplicemente, una finzione banalissima, un ciuccio per la soddisfazione provvisoria dell’istinto di suzione, con una folla di sfaccendati, impiegati sottratti al lavoro e studenti e scolari dalle lezioni, con bandiere e striscioni, che ci fan tornare alla memoria le nostre manifestazioni festive d’un tempo, altrettanto vuote e sconclusionate rassegne politico-ideologiche delle “realizzazioni”. Soltanto quali realizzazioni?

Gli ospiti altolocati che vengono qui in visita non mettono il naso oltre il monumento della “Madre addolorata”; di promesse sempre tantissime, e invece di organizzare qualcosa di efficace, per esempio andare a vedere le terre abbandonate e incolte, un tempo feconde e ben tenute, oppure visitare villaggi e paesi bruciati dall’incendio radioattivo allo scopo di restituire tutto questo alla gente… scusate un po’… Fino a quando in sostanza questo pezzettino di terra ai confini estremi della Russia rimarrà la pietra d’inciampo per tutto il gigantesco paese con le sue immense risorse e possibilità? E osservando da fuori questo pathos convulso, per quanto sia triste rendersene conto, bisogna constatare che tutte le parole gratuite degli uni e i mugolii degli altri non accennano ancora a finire, e andranno avanti fino a quando si potrà ancora mungere la “mucca di Cernobyl” e su questo accumulare un capitale finanziario e politico. È possibile, fino al completo decadimento.

Konstantin Popov
 
 
 
 

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