Autore: Carlo Spera
Tratto da:
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006
Автор: Карло Спера
Из:
“Путешествие на край ночи.
20 лет после взрыва на ЧАЭС”
Издательство: ViediMezzo (Италия)
Дата: 2006 г.
OL'GA, TAT'JANA E LJUDMILA
Trasferite. Residenti in uno dei due quartieri riservati ai “cernobyliani” nella città di Minsk
Io
arrivo da Vetka, una cittadina che si trova a trenta chilometri da
Gomel’. Dall’aeroporto sono solo quindici minuti d’auto. È una bella
zona: ci sono ettari e ettari di bosco e un bellissimo fiume. Prima era
considerata la più bella zona di villeggiatura nei dintorni di Gomel’.
Era un posto attrezzato con tante strutture ed edifici per le vacanze.
Lavoravo lì come insegnante; vi ero stata mandata per motivi di lavoro nel 1977. A
me e mio marito quel posto è subito piaciuto, così abbiamo deciso di
rimanerci a vivere. È lì che sono nati tutti i nostri figli.
Abitavamo
in un appartamento che ci aveva dato lo stato composto da una camera da
letto e un soggiorno. Eravamo giovani a quel tempo, avevamo davanti a
noi tutta la vita ed eravamo felici. Anche il lavoro ci piaceva.
Quando
è accaduto il disastro eravamo a Vetka. Non ci hanno detto niente, non
ci hanno dato nessun tipo di informazione, come tutti gli altri non
sapevamo niente di niente. Mia figlia più piccola aveva tre anni, il più
grande otto. Quando si è saputo quello che era successo siamo stati
presi dal panico, non sapevamo cosa fare. L’incertezza è stata
terribile.
Che giorno era?
Il
ventinove aprile. Quel giorno sono incominciati ad arrivare i pullman
con i bambini evacuati dalla zona di Bragin, e cioè a circa cento
chilometri di distanza. Sono stati loro a dirci che era successo
qualcosa, hanno accennato a un incendio, e che per questo li stavano
trasferendo. Ricordo che non si trattava di pullman organizzati, erano i
genitori dei bambini che, di propria iniziativa, avevano deciso di
spostare i propri figli. Loro avevano capito cosa era successo, per
questo decisero di portare i bambini dai parenti, dagli amici, dovunque
purché lontano da lì.
Il
tre maggio, invece, sono arrivate le persone che vivevano a pochi
chilometri dalla centrale. Questa volta però i pullman erano stati
organizzati dallo stato. Quella povera gente è stata sistemata negli
edifici di villeggiatura che in quel periodo erano ancora vuoti. Quel
giorno abbiamo capito che era successo qualcosa di molto grave. La gente
è arrivata senza niente, avevano solo i documenti e il vestito che
indossavano. Facevano pietà, erano stati strappati al loro ambiente
senza poter portare via niente. Avevano detto loro che sarebbero potuti
tornare presto a casa... ma loro lo sapevano che non era vero, che non
sarebbero mai tornati. Sono stati da noi un paio di mesi, poi il governo
li ha mandati nei sanatori.
Nel nord del paese?
Non si sa. Non li abbiamo più visti.
Non le è mai capitato, in questi anni, di incontrarne qualcuno?
No,
mai. Comunque dopo un po’ anche noi abbiamo deciso di portar via da
Vetka i nostri figli. Chi poteva farlo, naturalmente. Mio marito aveva
la mamma che viveva vicino Minsk e così li abbiamo mandati da lei. Siamo
stati fortunati.
Lei e suo marito invece siete rimasti a Vetka?
Lì lavoravamo e lì siamo rimasti.
A far che? I bambini non erano stati evacuati?
Alcuni
erano rimasti. Solo chi poteva li ha mandati via, chi aveva la
possibilità economica. Soltanto dopo un anno, quando si è chiarita la
situazione, lo stato ha iniziato a organizzare i viaggi di risanamento
per i bambini. Li mandavano in molte zone dell’Unione Sovietica. Perché
quando gli hanno misurato il tasso di radioattività, gli esperti hanno
scoperto che i bambini che vivevano da noi a Vetka erano impregnati di
radiazioni. Nel 1990 la radioattività, lì da noi, era la stessa che
nella zona di trenta chilometri intorno alla centrale. Colpa delle
piogge.
E poi cosa è successo?
Alcuni sono andati via. Per primi quelli che avevano bambini; poi tutti gli altri. Ci hanno sparso per tutta la Bielorussia.
Vorrei capire se a un certo punto c’è stato un ordine: via di qui!
Tutti
noi volevamo andare via. Ci è stato detto di andare via e che avevamo
la possibilità di trasferirci in un altro posto. Tutti volevamo andare
via. Ci hanno dato una carta: c’era scritto che eravamo degli evacuati.
Era la carta di evacuazione.
La conserva ancora?
Sì, certo.
La signora si alza e va a prendere il documento. Lo conserva come una reliquia, in una busta di plastica ermeticamente chiusa.
C’è
scritto che è stato rilasciato a Vetka, nella regione di Gomel’, e che
abbiamo vissuto lì fino al ventisei novembre 1991. C’è scritto anche che
Vetka si trova nella zona di controllo permanente della produzione di
prodotti alimentari e che mio marito con tutta la sua famiglia è stato
trasferito a Minsk. Qui c’è l’indirizzo della casa in cui ci troviamo in
questo momento. Il tutto con delibera del presidente della repubblica
bielorussa, ventotto maggio 1991, protocollo numero undici. Il documento
dice anche che abbiamo diritto all’assistenza medica primaria e che
abbiamo ricevuto come indennizzo settemilacinquecento rubli bielorussi.
Chiedo
alla signora se posso fotografare i documenti. Dice di sì, però prima
decide di coprire i nomi e i dati anagrafici visibili sul documento.
Prima
di trasferirci ci hanno chiesto dove volevano andare, in che regione.
Siccome mio marito aveva la mamma a Minsk abbiamo detto che volevano
andare nella regione di Minsk. Siamo stati fortunati, molti sono stati
mandati più a nord. Siamo stati fra i primi ad arrivare in questo
quartiere. Qui, nel palazzo, proveniamo tutti dalla provincia di Vetka.
Nel palazzo affianco, invece, provengono tutti da Čečersk.
Ci
hanno trasferiti tutti insieme dalla stessa zona, e per noi è stato
psicologicamente importante. È stato più facile adattarsi: ci
conoscevamo; i parenti hanno continuato a vivere nello stesso posto. Ci
sono due quartieri di trasferiti in città: uno è il nostro, l’altro si
trova dall’altra parte di Minsk. Piano piano questi due quartieri sono
diventati delle città dentro la città. Lo stato ha fatto costruire anche
le scuole per i nostri figli e così noi insegnanti abbiamo trovato
anche lavoro. È stato più facile adattarsi, anche perché gli abitanti di
Minsk non ci vedevano molto bene. Dicevano che avevamo tolto
loro gli appartamenti. Il problema delle abitazioni, degli alloggi, c’è
sempre stato nel nostro paese. Funziona così: ci sono delle liste; tu ti
iscrivi in una lista e quando arriva il tuo turno e c’è un appartamento
a disposizione puoi occuparlo. Il nostro arrivo in città ha
scombussolato le cose. Eravamo tanti, e tutti avevamo bisogno di un
alloggio.
Un
altro problema erano i posti di lavoro: proprio in quegli anni, nel
1991 e nel 1992, ci sono stati grandi cambiamenti in Unione Sovietica.
Le fabbriche sono state chiuse, è stato un vero e proprio disastro, una
crisi economica come non c’era mai stata. Il numero dei posti di lavoro è
diminuito enormemente.
Però voi trasferiti avevate la priorità sia per quanto riguarda gli alloggi sia per i posti di lavoro.
È
così. Noi eravamo privilegiati: avevamo il diritto a un appartamento,
potevamo andare in villeggiatura gratuitamente e anche le medicine per i
nostri bambini erano a carico dello stato.
Quindi è per queste ragioni che i cittadini di Minsk non vi vedevano di buon occhio.
Sì. Chiamavano i nostri bambini cernobyliani.
I cittadini di Minsk non vogliono capire che queste case sono state
costruite con i soldi raccolti appositamente per aiutare noi trasferiti.
Vi sentite in qualche modo ghettizzati?
Sì, eccome.
Ma fortunatamente lei ha continuato a lavorare.
Certo,
anche la mia amica. Lavoravamo insieme nel 1986 e lavoriamo insieme
anche adesso. Per molti altri trovare lavoro è stato più difficile. Mio
marito per sei mesi non è riuscito a trovare niente. Ogni settimana
tornava a Vetka per qualche giorno, non riusciva ad ambientarsi. Poi ha
trovato lavoro in un’agenzia turistica e adesso lavora ancora lì. Le
persone come noi, i trasferiti, dovevano lasciare le proprie case. È
stata dura. Molti hanno dovuto abbandonare le case costruite dai
genitori. Mia madre è rimasta là. Le hanno offerto un appartamento a
sessanta chilometri da Minsk. Lo ha rifiutato. Adesso d’inverno vive con
noi ma d’estate non riesce a stare qui a Minsk. È anziana, ha 75 anni,
non ce la fa a restare in città per molto tempo. Sono molti quelli che
sono venuti a vivere a Minsk e che poi hanno deciso di tornate indietro.
Alcuni non avevano neanche più le case che avevano lasciato perché vi
abitava altre gente, ma sono andati via lo stesso. Noi siamo stati
obbligati invece, non potevamo rifiutarci.
In
quel periodo sono sorti molti conflitti armati: in Kazachstan, in
Georgia, in Armenia e in Azerbaižan. La gente scappava da quelle zone e
molti di loro sono andati a vivere lì dove una volta vivevamo noi.
Molti tra voi erano dediti all’agricoltura. La terra era la “cosa” più importante. Come è stato l’impatto con la città?
A
qualche contadino trasferito hanno dato un pezzo di terra qui intorno
per coltivare l’orto. Quelli che non hanno avuto la terra, invece, hanno
trasformato le aiuole e i giardini dei palazzi in piccoli orticelli.
Proprio quei fazzoletti di terra intorno ai palazzi! Per i contadini è
stato difficilissimo. Strappati improvvisamente da un ambiente a loro
ben conosciuto non sapevano cosa fare. Molti hanno iniziato a bere.
Oggi, sapendo che venivate a intervistarci, ho cercato di radunare i
vicini, però la maggior parte delle donne è andata in campagna e gli
uomini sono tutti ubriachi. L’alcolismo è una vera e propria malattia
nella nostra società.
Lei crede che il problema dell’alcolismo sia nato a causa del trasferimento?
L’alcolismo!
Gli alcolisti non sono solo quelli che si sono trasferiti o che non
sono riusciti ad adattarsi; e non sono solo quelli che non hanno trovato
lavoro. Vuole la verità? La causa è la situazione economica generale.
Comunque
è innegabile che portar via le persone dalle proprie terre comporti in
queste persone una sorta di perdita della personalità, del proprio ruolo
sociale.
È vero, sì, ma è anche una scusa.
Quindi secondo lei si tratta di debolezza. Lei si sente cittadina di questa città?
Io personalmente non lo sono; i miei figli sì, loro non vorrebbero vivere da nessuna altra parte.
Se potesse tornerebbe a Vetka?
No. In quindici anni è cambiato tutto, non ci sono più i vicini, i parenti, i conoscenti.
Quando le hanno comunicato che la sua famiglia doveva evacuare qual è stata la sua reazione?
Me
lo aspettavo, ero preparata, tutti lo eravamo; perché tutti avevano
intenzione di andare via. La maggior parte di noi aveva dei bambini
piccoli e desiderava soltanto portarli lontano da lì.
In quanti eravate?
Diecimila.
Mia madre dice che metà degli abitanti è rimasta, soprattutto quelli
che non avevano figli, gente di cinquanta o sessant’anni.
Torna spesso da quelle parti?
Due volte l’anno, non di più.
Interviene l’altra signora.
Io sono Ucraina, ma siccome prima c’era l’Unione Sovietica e i paesi non erano divisi, ho studiato qui a Minsk.
Com’è la vita in Ucraina?
Più
difficile. Vivere qua è più facile. Anche nella provincia dove sono
nata i villaggi sono stati evacuati. Tuttavia c’è gente, un paio di
famiglie, che è rimasta a vivere là.
In
Ucraina abbiamo incontrato una coppia che era stata evacuata ma poi è
tornata illegalmente a vivere nella zona di esclusione. Li hanno portati
via di nuovo ma sono tornati. Poi hanno trovato un accordo e ora vivono
lì. Spesso le persone molto anziane dicono che hanno superato la guerra
e che non hanno paura delle radiazioni.
Le radiazioni non si vedono, non si toccano. Sembra tutto normale. Ma non è così. La gente continua a morire anche lì.
I vostri figli sono informati su ciò che è accaduto a Cernobyl?
I nostri bambini sì.
Dopo un trauma come quello che hanno vissuto, lo spostamento ecc… hanno paura? Che cosa resta dentro?
I
primi anni avevano paura. Ma oggi non hanno fobie, vivono tranquilli e
si sono ambientati. Certo sanno anche loro che il Sarcofago non è
proprio il massimo della sicurezza, però…
A questo volevo arrivare. Che cosa sapete riguardo il Sarcofago?
Sappiamo
come è stato costruito: in fretta e da persone inesperte. Sappiamo che
sono passati già diciannove anni e che la struttura non è in buone
condizioni. Questo sappiamo.
C’è un po’ di rabbia nei confronti della sorte. Ci chiediamo il perché, perché mai siamo stati noi a prendere tutto il male. La colpa non è nostra. La cosa più brutta è stato vivere nell’incertezza.
Voi avete fondato un’associazione che unisce le persone trasferite. Precisamente di che vi occupate?
I
primi anni abbiamo lavorato molto ma adesso la situazione è cambiata.
Abbiamo iniziato organizzando viaggi di risanamento per i bambini, poi
abbiamo formato una banda folcloristica.
Quindi la vostra associazione è nata con lo scopo di migliorare l’organizzazione del quartiere?
Sì,
anche per quello. Cercavamo di organizzare incontri, feste, per parlare
dei problemi legati al trasferimento, per raccontarsi le proprie
esperienze; insomma, un punto d’incontro. Ma prima di tutto per
organizzare le vacanze dei bambini all’estero.
Un’ultima domanda: secondo voi due giovani italiani fanno bene a disturbare due splendide signore bielorusse?
Le signore ridono.
Fate molto bene a parlare di queste cose, è importante non dimenticare.
Intervista di Carlo Spera
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