Da allora questa data è diventata il Giorno del dolore per le vittime di Cernobyl e dell’Ammonimento nell’utilizzo dell’atomo pacifico. In tutto «nel mondo per le conseguenze da irradiazione soffrono più di 2 milioni di persone, tra cui 498.000 bambini», ha ricordato oggi nel suo intervento il presidente dell’Ucraina Viktor Janukovič.
Ricordando quei giorni d’aprile a Cernobyl, l’«Altajskaja pravda» pubblica gli appunti dell’insegnante di lingua e letteratura russa Boris Tušin di Barnaul. Egli è stato uno tra le migliaia di liquidatori delle conseguenze dell’incidente ed è stato insignito dell’ordine del Coraggio. Tušin fu un “partigiano” – così nel linguaggio quotidiano venivano chiamati i soldati di complemento.
La zona di spopolamento
Stavo tornando da Cernobyl in treno, con dei trasbordi. In uno di essi la capovagone iniziò a circondarmi di attenzioni eccessive, cercando di prevedere ogni mio desiderio. Bastava che pensassi a un bicchierino di tè, ed eccola che già mi porta un paio di bicchieri di tè forte con lo zucchero, ripetendomi ogni volta: «Ragazzo mio, non uscire per niente dallo scompartimento, non affaticarti troppo». Mi scervellavo a cercare d’indovinare perché le andassi così tanto a genio. Risultò poi che mi aveva circondato di tante attenzioni per «non diffondere il contagio per il vagone».
Arrivai a Barnaul. Aspetto il tram alla fermata. Il mio aspetto estenuato, lo zaino striminzito in spalla, l’uniforme militare da campo, gli stivaletti consunti e slargati da altri piedi (a Poltava durante il cambio del treno dei soldatini mi proposero di scambiarci gli stivali, del tipo, tanto tu li devi dare via lo stesso…) – tutto tradiva subito il “partigiano”.
Rallentò una “Volga” e l’autista baffuto, sporgendo la testa, domandò:
– Ehi tu, da dove arrivi?
– Da là…
– Benarrivato! Be’, com’è là?
– Facci un salto e lo saprai, fai ancora in tempo…
– Io quella notte non ero in casa, – ammiccò in maniera cospirativa il liquidatore mancato.
Il giorno seguente andai a Tolčich, al distretto militare, per consegnare l’uniforme militare e ritirare i miei vestiti civili. Dal finestrino balenavano i campi e i pioppi, le piccole stazioni di passaggio, gli uccelli sui fili della luce, i paesi e i villaggi. La contemplazione del paesaggio dietro al finestrino fu interrotta dalla domanda di un colonnello con le spalline dell’aviazione.
– Viene da Cernobyl, soldato? Be’, com’è là?
Io non mi misi a spandere merda, come con il tassista, cominciai a raccontare, ma lui mi corresse: «Questo lo so già dai giornali, tu dimmi piuttosto la verità…».
Tirai fuori allora i miei appunti che avevo scritto a Cernobyl. Li lesse, mi dette un’occhiata con interesse: «Ora è tutto chiaro!».
A Tolčik mi affrettai al magazzino della roba. Il sergente mi lasciò a bocca aperta: «Cerca là in quell’angolo». L’enorme locale era ammassato fino al soffitto di zainetti “partigiani”. Scavando nella montagna fino alla base – noi eravamo i primi – trovai infine il mio fagotto. Passate felicemente le pratiche, ritornai a casa di nuovo in abiti civili…
Un due giorni dopo ricevetti una telefonata dal comando militare, la voce dell’ufficiale era severa: «Smettila di seminare zizzania!».
A quanto pare, il colonnello dell’aviazione per il quale si era fatto “tutto chiaro”, dopo aver letto le mie annotazioni e aver evidentemente aggiunto qualcosa di suo, si mise a condividere le informazioni “di prima mano” con i suoi compagni. E, com’è noto, le voci corrono dappertutto. Rintracciarmi non presentò difficoltà alcuna.
Ecco cosa lesse il vigile colonnello che mi aveva telefonato negli appunti “cifrati”, che a lui erano parsi “seminare zizzania”:
«Notte. Telefonata. Convocazione. Raduno. Raccolta (scuola). Comando militare. Pullman. Tolčich. Distribuzione del corredo. Raduni. Preparazione. Piazzale di carico. Convoglio. Lo sferragliare delle ruote. Stazioni. Stazioni secondarie. Binari di scambio. Chilometri. Campi. Pioppi. Boschi. Boschetti. Cespugli. Piloni. Cavi elettrici. Uccellini. Nuvole…
Ucraina. Cernobyl. Stazione Vil’ča – arrivo, scarico. Movimento della colonna – buio, silenzio, non un’anima, ombre, siluette, le cicogne dei pozzi e… silenzio! Campi – le tende, la cittadina, autoparco, assetto, dotazione.
Schieramento: ordini, ordini, equipaggi, tecnica. Lavoro. Bellezza! Caldo! Mercatini? Frutta e verdura?! Radiazioni!!!
Materiali da costruzione: ruberoid, cartone catramato, piombo, assi sottili, legname segato, pellicola, vetro, chiodi, armatura… Cemento! cemento! cemento! Montagne! Pioggia, vento…
Villaggi, cascinali, strade, cortili, alberi, pozzi, edifici – decontaminazione! Proprietà, merci, prodotti, manufatti, spazzatura, terreno – rimozione, seppellimento!
Cimiteri: discarica, carri armati, bulldozer – appianamento, compattamento. Centrale nucleare, blocco energetico, tetto. Respiratore, guanti, stivali, abbigliamento speciale. Vanghe, palette, barelle, «cartasughe», forche. Carico, trasporto, seppellimento.
Centrale, territorio: asfaltatura, cementazione. Sabbia, ghiaia, pietrisco. Gru giganti, robot, attrezzature, attrezzature. Attrezzature. Guasto. Rottura. Riparazione, messa a punto.
Zona: recinzione, filo spinato, collegamento, antifurto, picchetti, cordoni, postazioni, punti di controllo sanitario, punto di trattamento speciale. Decontaminazione! Decontaminazione! Decontaminazione!
La struttura “Copertura”, ovvero “Sarcofago”: armatura, calcestruzzo. Calcestruzzo, armatura. Mixer, pompe. Tecnica. Calcestruzzo, calcestruzzo, calcestruzzo!
Accampamento: preparazione per lo svernamento. Riposo! Doccia. Lavaggio. Cambio dei vestiti.
Riposo: cinema, libri, varietà, artisti, concerti, musica. Sau-na!
Nuovi arrivi, cambio, ritorno».
A dire il vero, in seguito a tale descrizione venne aggiunto:
«Ritorno! Policlinico, ospedale, farmacia. Farmacia, policlinico, ospedale, ospedale militare, sanatorio. Perizia medico-sociale (commissione di periti dei medici del lavoro). Invalidità.
Abitazione: coda, coda, coda!.. Ordine! Onore, onorificenze: ordine, medaglie, diplomi, regali! Vita. Lotta!».
Nella tragedia di Cernobyl si rispecchiò come in una goccia d’acqua tutta la perversità del sistema di allora: disattenzione per le persone, onnipresente negligenza, disprezzo delle normative sul lavoro e sulla sicurezza. Lo stato economizzava perfino sulla sicurezza dell’energia nucleare. Il sistema di controllo dosimetrico e i mezzi di protezione erano lungi dalla perfezione. E la completa mancanza d’informazione alla popolazione, confinante con la segretezza, riguardo ai pericoli concreti e possibili nelle situazioni d’emergenza.
Dai ricordi dei liquidatori
Durante la liquidazione delle conseguenze dell’incidente alla centrale di Cernobyl vennero utilizzati mezzi tecnici radiocomandati. Ad esempio, dei bulldozer senza bulldozeristi rastrellavano dentro il quarto reattore tutto quello che andava seppellito insieme a esso, e ripulivano le vie d’accesso per gli altri mezzi tecnici. Il comando veniva eseguito da uno speciale mezzo blindato dalla distanza di
Nikolaj Baklanov: «Ci sistemammo nelle caserme dell’unità militare del distretto del Prikarpat’e, nel cui battaglione costruttori rimasi per 83 giorni, prendendomi una dose d’irradiazione di 8,5 ber. Lavoravamo alla centrale con il metodo della turnazione per quattro ore (per dieci minuti ogni ora). Con un autobus arrivavamo fino a Cernobyl, da lì con un altro fino alla centrale di Cernobyl. Arrivavamo, ci cambiavamo, indossavamo la maschera “petalo”, i guanti, gli stivali di plastica…
Quante tute speciali venivano buttate! Ogni ora venivamo sottoposti al lavaggio al punto di controllo sanitario. Di lavoro ce n’era molto: livellavamo, versavamo terra, pietrisco, sabbia, posavamo asfalto e calcestruzzo, scavavamo fosse, costruivamo le recinzioni, lavavamo i muri, portavamo le “cartasughe” (così venivano chiamate le soluzioni impregnanti che si gettavano nel liquido radioattivo) sugli autocarri, prendendole con le forche. Tutta la pattumiera la portavamo nei cimiteri, dove un carro armato la compattava. Al blocco energetico era in funzione una gru forestiera con un sistema automatico ingegnoso, il quale però andò presto in tilt e mise fuori uso la gru. Ridacchiavamo: “Il robot non resisteva, e noi – come niente!”. La mensa si trovava a
Gennadij Galkin: «Il primo oggetto era la città di Pripjat’: i pini ingialliti, le vie deserte. I piedi si rifiutavano di calpestare questa terra. Pareva che qui persino l’aria fosse avvelenata. Ma oramai eravamo lì, e bisognava comportarsi dignitosamente e fare quello che c’era da fare.
Certo, “decontaminazione” è una parola altisonante. La sostanza delle nostre azioni era semplice: dalle stazioni idranti mobili riempite di acqua con polvere detersiva, del tipo da lavatrice, la quale assorbiva la polvere radioattiva, noi lavavamo gli edifici, le strade, l’asfalto. Toglievamo lo strato superficiale del terreno che poi seppellivamo… E dopo un paio d’ore il vento portava una nuova nube di polvere che di nuovo contaminava le vie. Le case, le strade… Bisognava rifare tutto da capo. E così – giorno dopo giorno…».
Pëtr Kuničenko: «Passavamo la città di Cernobyl, dopo cinque chilometri ci fermavamo sulla piattaforma di cemento prima della sbarra. Qui finiva la “zona pulita”. Di corsa passavamo all’analoga piattaforma dall’altra parte, e salivamo su di un altro autobus. Si trattava di veicoli speciali per il trasporto delle persone alla centrale, ricoperti all’interno da lastre di piombo. I sedili erano collocati in basso, tanto che le nostre teste non arrivavano ai finestrini. Arriviamo alla diramazione alla cui sinistra rimane il villaggio di Kopači con la fila dei camion-betoniere. Sulla destra – una vecchia fabbrica per la produzione di calcestruzzo. Quasi rasente a essa ad angolo acuto è situato il 4° blocco energetico, ridotto in macerie dall’alto e riempito di spazzatura dal basso. Dietro il blocco, come un’enorme cicogna s’innalza una gru di
Dopo l’incidente, allo scopo di trattenere al massimo le radiazioni dagli aerei e dagli elicotteri spargevano una polvere speciale la quale, venendo a contatto con la rugiada mattutina, formava un’emulsione polimerica. Una volta seccata, essa legava la polvere radioattiva, trasformandola in una pellicola polimerica, che si attaccava saldamente alle foglie degli alberi e degli arbusti, tanto da far cadere le foglie… Intorno c’erano alberi ricoperti di mele rosse senza neanche una foglia. Proprio come nei disegni dei bambini piccoli… E sugli alberi trascorrevano la notte le galline… È l’unica volta nella vita che potei vedere uccelli domestici trascorrere la notte sugli alberi».
Ivan Luk’jancev: «Successe un guaio: si staccò una cassaforma, e sotto il muro si riversò il calcestruzzo, circa 1.000 cubi. Accadde di notte. Il cemento era di alta qualità, il calcestruzzo si solidificò rapidamente. Da tre escavatori si dovettero assemblare dei potenti magli idraulici che fecero a pezzi il calcestruzzo solidificato, mentre un bulldozer DET-250 ripulì il piazzаle e in quel luogo venne installata una gru molto possente su un cingolato. Una volta di notte portarono un impianto laser montato su un’automobile “Ural”. Tutti i lavoratori dovevano recarsi nella “copertura”. Tutti si radunarono nell’ex sala mensa. I ragazzi che lavoravano su questo impianto, direttamente lì, in mensa, indossarono degli scafandri di colore argentato e, uscendo, misero in guardia tutti di non sporgersi, altrimenti si sarebbero sentiti indisposti. Ma a quel punto accadde qualcosa. Tutti si riversarono fuori. L’impianto illuminò il 4° blocco e cominciò a tagliare le lastre e i massi di calcestruzzo pendenti che erano rimasti sull’armatura.
Fondeva tutto: e il metallo, e il calcestruzzo. Si vedevano delle macchie di un colore giallo-pagliericcio, si sentiva il rumore dei pezzi che cadevano di lastre, dell’armatura e del calcestruzzo. Dopo quello spettacolo, tremavamo tutti. Avevamo i brividi, Come se fossimo restati abbastanza a lungo al gelo. Poi comparve la debolezza».
El’vira Čufistova: «Era successa una sciagura nazionale – la catastrofe di Cernobyl, e Vladimir partì per Cernobyl… Da là scriveva di rado: non ne aveva il tempo, e inoltre, come sempre, di molte cose non si poteva raccontare, non era poi tanto diffusa la glasnost’ in quei giorni. In agosto, ci giunse voce che nostro figlio fosse stato trasportato in un ospedale di Kiev. Io corsi immediatamente al telegrafo, inviai una richiesta d’informazioni all’unità militare con ricevuta prepagata di ritorno. Trascorse una settimana di tormentose attese senza risultati. Allora nella mia agendina trovai gli indirizzi di alcuni conoscenti di dieci anni prima con i quali una volta avevo condiviso alcuni giorni di vacanza sul Volga. Le lettere le inviai con la posta aerea, scrivendo sulla busta: “Prego di aprire, anche se il destinatario fosse andato via!”. Nella lettera esposi la mia richiesta d’informazioni. Non nutrivo molte speranze in una risposta, per questo fui toccata fin nel profondo dell’anima dal telegramma che ricevetti da perfetti sconosciuti con l’indicazione del luogo in cui si trovava mio figlio, dell’indirizzo dell’ospedale…
A casa Vladimir ritornò in autunno, dopo aver passato due mesi all’ospedale militare… La primavera tardiva del 1996 non presagiva gioie particolari. Mio figlio divenne un assiduo frequentatore di policlinici, ospedali, ospedali militari. In settembre sul giornale apparve la comunicazione del conferimento ai “cernobyliani” di ordini e medaglie. Tra di loro c’era pure mio figlio. E un mese più tardi ricevette lo status di invalido. La medaglia “Per il salvataggio di coloro che stavano morendo” gliela consegnarono in primavera, quando per l’ennesima volta era ricoverato all’ospedale militare. Nella sua corsia entrarono i rappresentanti dell’amministrazione del quartiere Oktjabrskij della città di Barnaul e della fabbrica tessile. Non si dimenticarono di invitare anche me. “Servo
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