Il blog "Le Russie di Cernobyl", seguendo una tradizione di cooperazione partecipata dal basso, vuole essere uno spazio in cui: sviluppare progetti di cooperazione e scambio culturale; raccogliere materiali, documenti, articoli, informazioni, news, fotografie, filmati; monitorare l'allarmante situazione di rilancio del nucleare sia in Italia che nei paesi di Cernobyl.

Il blog, e il relativo coordinamento progettuale, è aperto ai circoli Legambiente e a tutti gli altri soggetti che ne condividono il percorso e le finalità.

"Le Russie di Cernobyl" per sostenere, oltre i confini statali, le terre e le popolazioni vittime della stessa sventura nucleare: la Bielorussia (Russia bianca), paese in proporzione più colpito; la Russia, con varie regioni rimaste contaminate da Cernobyl, Brjansk in testa, e altre zone con inquinamento radioattivo sparse sul suo immenso territorio; l'Ucraina, culla storica della Rus' di Kiev (da cui si sono sviluppate tutte le successive formazioni statali slavo-orientali) e della catastrofe stessa.

19/05/10

«TORNATO DAL TURNO ALLA CENTRALE DI CERNOBYL IL GIORNO SEGUENTE ALL’INCIDENTE, I VESTITI E LE SCARPE ME LI TOLSI NEL PORTONE D’INGRESSO...»

– Nel 1986 io lavoravo come capoturno al reparto tecnica di sicurezza e tutela del lavoro alla centrale nucleare di Cernobyl, – racconta il liquidatore dell’incidente Jurij Abramov. ­– Il compito principale del mio reparto era quello di garantire la sicurezza radioattiva nella centrale.

Noi abitavamo a Pripjat’, la città dei lavoratori dell’atomo, ad alcuni chilometri dalla centrale. La mattina del 26 aprile io e mia moglie portammo a passeggio la nostra figlioletta che allora era nata da appena due settimane. Il tempo era splendido: il cielo limpido, faceva caldo, sugli alberi germogliavano le foglie. La città era ancora ignara del fatto che la notte fosse esploso il reattore del quarto blocco e Pripjat’ fosse già stata ricoperta da una nube radioattiva. Quel giorno, del resto, anche mio figlio di sei anni giocava al parco con la sabbia… Ci raccontò dell’incidente una vicina di portone. Suo marito, Vladimir Šašenok, lavorava al reparto assemblaggi e la notte del 26 aprile aveva partecipato all’esperimento al reattore nucleare. Durante lo svolgimento, era avvenuto lo scoppio. Vladimir ricevette delle forti ustioni. Purtroppo, non lo si riuscì a salvare – morì alcuni giorni più tardi.

Per sapere cosa fosse successo, telefonai alla centrale. Ed ebbi la conferma: era avvenuta un’esplosione, io e i miei collaboratori dovevamo presentarci urgentemente alla centrale.

Radunai i colleghi e, senza aspettare l’autobus, ci affrettammo alla centrale, – ricorda Jurij Abramov. – Quando uscii dai limiti di Pripjat’, vidi come sopra il quarto reattore della centrale di Cernobyl si sollevasse del fumo. Poi notammo le costruzioni distrutte della sezione del reattore. Divenne chiaro che l’incidente fosse molto grave.

Mi mandarono nel bunker che si trova sotto l’edificio amministrativo della centrale. Là si era già riunita tutta la dirigenza capeggiata dal direttore della centrale di Cernobyl Viktor Brjuchanov. I loro visi erano tutti preoccupati, panico però non ce n’era. Io e il capo del reparto di sicurezza nucleare Aleksandr Gobov fummo incaricati di effettuare una ricognizione radioattiva del territorio adiacente il quarto reattore. Ci muovemmo su di un mezzo dei pompieri che la notte prima era stato utilizzato nello spegnimento della centrale in fiamme. Dentro la cabina il fondo radioattivo era di circa 1 roentgen all’ora. Giungemmo con attenzione al reattore distrutto a una distanza di 50 metri, lì il livello di radiazioni raggiungeva i 30 roentgen, mentre sopra le macerie era di decine di migliaia di roentgen! Le distruzioni facevano raccapriccio. Mi si è impressa nella memoria l’enorme pompa circolare, quella principale, di circa 10 metri d’altezza, distesa su un fianco… Ma la cosa più opprimente era il reattore nucleare, come fatto a pezzi, dal quale era ricaduta nell’ambiente circostante una quantità pazzesca di sostanze radioattive. Dalle sue rovine s’alzava il fumo. Intorno giacevano i blocchi di grafite, da cui era composta la struttura del reattore. A essi non ci si doveva avvicinare, ci si girava intorno, perché là il livello di radiazioni era enorme.

– Lei tentò di comunicare alla sua famiglia che bisognava andare via da Pripjat’ al più presto possibile?

– A casa non avevamo il telefono. Tentai di telefonare alla vicina, ma la linea con Pripjat’ era già stata interrotta. In città io tornai intorno alle due di notte. Per non portare dentro le radiazioni, i vestiti e le scarpe me li tolsi direttamente nel portone d’ingresso, entrai in casa con le sole mutande. E immediatamente andai nella stanza da bagno, a sciacquare via la polvere radioattiva. Per fortuna, l’acqua del rubinetto non l’avevano ancora tolta.

– Com’è che la lasciarono andar via dalla centrale con i vestiti contaminati?

– Durante la ricognizione radioattiva, indossavamo l’equipaggiamento speciale: una tuta bianca cotonata, i copriscarpe, un copricapo, il respiratore “petalo” per proteggere gli organi respiratori. Tornati dalla missione, ci sciacquarono via la polvere radioattiva al cosiddetto punto di controllo sanitario, ci cambiammo. Ma durante il tempo che impiegai a raggiungere la città, i miei vestiti erano di nuovo contaminati.

Sapevo già che le strade intorno a Pripjat’, compresa la ferrovia, erano state bloccate dalla polizia. Non c’era neanche da pensare quella notte di portare via la famiglia. Io e mia moglie in ogni caso preparammo le cose più indispensabili in modo che, non appena lo avrebbero permesso, lei sarebbe partita con i bambini. Eravamo molto preoccupati per i piccoli. Al mattino annunciarono l’evacuazione. Avevano predisposto dei pullman (in tutto furono utilizzati 1200 pullman e tre treni passeggeri). Ma il nostro vicino Aleksandr Archipenko ci propose di partire con la sua “Žiguli”. La direzione del reparto chimico dove lui lavorava aveva dato a Saša un paio di giorni affinché portasse via la famiglia. Nella “sei posti” presero posto sua moglie, i suoi due figli e la mia consorte con il bambino e la neonata. La sua famiglia la portò nella loro terra, nella regione di Odessa, mentre i miei li mise sul treno per Bender (città della Moldavia), dove vivevano i miei genitori.

Io rimasi ancora per qualche giorno nel nostro appartamento di Pripjat’. Ricordo ancora come la sera del 28 aprile dalla finestra della cucina osservassi gli elicotteri che gettavano enormi reti con dei sacchi pieni di una miscela di sabbia, boro, dolomite e piombo dentro il reattore esploso.

Poi fummo trasferiti nella colonia dei pionieri “Skazočnyj” (Favolosa), situata a trenta chilometri dalla centrale di Cernobyl. I lettini là erano piuttosto angusti, progettati per gli scolari. Ma io mi stancavo a tal punto che dormivo come morto. La giornata di lavoro durava 12 ore. Una volta mi proposero di sistemarmi in una stanza con uno dei miei colleghi. Al mattino i ragazzi mi domandarono: “Allora?”, ma io non capivo a cosa alludessero. Venne poi fuori che si trattava del mio vicino che russava terribilmente, ma io non l’avevo neanche sentito.

Nella prima settimana, ci portavano con gli autobus fino al villaggio di Kopač, a sei chilometri dalla centrale, e poi ci facevano salire su dei veicoli blindati. Su quegli stessi veicoli io e il collega Nikolaj Karpan del reparto di sicurezza nucleare andavamo anche a fare le ricognizioni radioattive.

– Non tentavate di sfuggire a quell’inferno?

– Io stavo svolgendo il mio lavoro e non pensavo a scappare. Anche se, non lo nascondo, lo stress c’era, e anche piuttosto forte. Lo affrontavamo con l’aiuto dell’alcol e della vodka. Prima dell’incidente io non bevevo niente di più forte del vino rosso, ma d’un tratto là mi toccò passare a bevande alcoliche più “serie”.

Ognuno sopporta lo stress in modo diverso. Alcuni non sono in grado di lottare con la sensazione di paura. Uno dei collaboratori, ad esempio, se ne scappò fin all’altro capo dell’Unione Sovietica, in Kamčatka. Ma c’erano anche quelli che, al contrario, andavano volontariamente alla centrale.

– Con l’alcol toglievate lo stress, ma con l’aiuto di che cosa eliminavate le radiazioni dall’organismo?

– Già il giorno stesso dell’incidente cominciarono a darci pastiglie di potassio iodato. Il cosiddetto iodio stabile contenuto in esse riempiva la tiroide, così che in essa non rimaneva più posto per lo iodio-131, pericoloso e radioattivo, fuoriuscito con lo scoppio del reattore. Questa misura ci aiutò tanto allora. E sebbene io ricevetti allora una dose significativa di radiazioni, non mi sono mai ammalato gravemente. A dire il vero, mi venne un’ulcera duodenale. Ma i medici riuscirono a curarmela nel 1988.

E poi bevevamo vino rosso – esso aiuta l’organismo a contrastare le radiazioni. Inoltre mangiavamo bene. Acqua minerale, verdura, frutta – ce ne davano quanta ne volevamo, e per giunta gratis. Presto dopo l’incidente arrivarono da Mosca dei medici della riabilitazione. Ci massaggiavano, ci facevano stendere su un tappetino con gli aghi. Queste procedure aiutavano a disfarsi dello stress e addirittura dal mal di testa.

– Come si sentiva allora, a passare metà giornata accanto al reattore distrutto?

– Mediamente. Allora avevo 32 anni. L’organismo era giovane, se la cavava. Inoltre, controllavamo scrupolosamente le dosi di radiazioni ricevute dal personale. Nelle condizioni d’incidente nucleare, esse non devono superare i 25 ber. Chi superava il limite veniva mandato oltre i confini della zona d’evacuazione.

– Era in contatto con la sua famiglia?

– Telefonare non potevo, le linee erano state staccate – evidentemente, per evitare che le informazioni su quello che stava accadendo alla centrale nucleare di Cernobyl si diffondessero per il paese. Sui giornali, alla radio, alla televisione davano notizie travisate. In particolare ci turbava il corrispondente di uno dei giornali centrali, un certo Gubarev. Scriveva tali assurdità! Del tipo che entro alcune settimane l’incidente sarebbe stato liquidato, il fondo radioattivo sarebbe tornato normale…

Soltanto all’inizio di maggio, quando in Svezia compresero da dove fosse arrivata da loro la nube radioattiva e stabilirono che erano radionuclidi di un reattore del tipo di Cernobyl, alla televisione intervenne il leader sovietico Michail Gorbačëv e concisamente informò il mondo sulla portata dell’incidente.

– Quanto erano pagati allora i liquidatori di Cernobyl?

– Cinque volte tanto rispetto allo stipendio normale. Il mio stipendio come capoturno era di 365 rubli. Moltiplicato per cinque – fanno 1825. Tanti soldi per quei tempi. Quando mi diedero un appartamento a Kiev, passai ai grandi magazzini “Ukraina”, comprai un televisore e moltissimi utensili domestici. Avevo così tanti soldi, che avrei potuto comprarmi alcuni televisori. Del resto, allora non tutto veniva misurato con la quantità di denaro.

Alla centrale di Cernobyl io vi lavorai dal 1976 al 1989. Dovetti andarmene perché ebbe inizio la campagna di trasferimento dei collaboratori della centrale di Cernobyl nella città di Slavutič, costruita apposta per noi. Mi obbligavano però a restituire l’appartamento ricevuto a Kiev. Ovviamente io non accettai e insieme a molti altri colleghi venni licenziato. Per giunta con un articolo che non esisteva nel Codice legislativo del lavoro: “In relazione ai cambiamenti contingenti delle condizioni di lavoro”.

Data: 27.04.2010
Fonte: www.facts.kiev.ua
Autore dell’intervista: Igor’ Osipčuk
Traduzione: S.F.

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