ALËNA
Dottoressa specializzata in psicologia. Lavora al Centro Oncologico Pediatrico di Minsk
Lungo
i corridoi del Centro Oncologico Pediatrico di Minsk in compagnia di
Alëna, la psicologa che si occupa dei bambini e dei loro familiari. La
dottoressa cerca di metterci a nostro agio. Scherza e ci parla
dell’Italia, di quanto ami il nostro paese.
Il
clima, la cucina, diciamo che mi abituerei facilmente a viverci;
l’Italia è il mio paese ideale. Mia figlia studia lingue all’università e
voleva prendere la specializzazione in spagnolo; mi sono opposta, l’ho
convinta a cambiare. Adesso studia italiano.
Le
sorrido e lei, senza cambiare tono di voce e conservando la stessa
gentilezza di prima, cambia argomento e mi dice di fotografare i bambini
soltanto dopo aver chiesto il permesso ai genitori. Le rispondo che
sono d’accordo.
In
questo ospedale siamo molto attrezzati: c’è un reparto per i bambini
più piccoli ma anche un reparto per i più grandicelli. Poi ci sono dei
locali per quelli che hanno malattie infettive. Abbiamo anche un reparto
di terapia intensiva e un altro dove si effettuano i trapianti di
midollo. C’è anche una cucina che serve per le mamme. Il mantenimento
del bambino è gratuito ma per le madri no. E anche loro devono mangiare.
Entriamo nella prima stanza. Ci sono tre bimbi e tre madri.
Le
madri stanno qui anche ventiquattro ore al giorno. C’è un magazzino
dove abbiamo sistemato alcuni letti temporanei. La notte li prendiamo e
li mettiamo nelle camere dei bambini, così le mamme possono stare vicine
ai loro figli. Non è solo una questione d’amore, ma anche perché in
questo modo possono controllare e tenere sotto controllo la situazione.
Meglio della mamma non c’è nessuno. In un certo senso fanno da
infermiere. Anche loro praticamente vivono in ospedale.
Notiamo
che la maggior parte dei bambini non ha i capelli. Alëna ci spiega che è
a causa della terapia ai cui vengono sottoposti.
Entriamo
in un’altra stanza. Un bambino molto piccolo che dovrà affrontare
un’operazione fra poche ore mi dice che non ha paura, che è un bambino
coraggioso. Mi chiede se sono io ad aver paura, e cerca di spaventarmi
con strilli e smorfie. Non faccio fatica a mostrarmi spaventato, lo sono
per davvero. Guardo Alëna cercando consiglio, non so cosa fare.
Il
bambino continua a strillare, cerco di calmarlo mettendogli in mano la
macchina fotografica. La afferra e scatta a ripetizione, senza guardare,
affascinato dal click rumoroso della mia reflex.
Usciamo, il bambino ha bisogno di riposare, di stare tranquillo.
La
dottoressa ci mostra alcuni disegni fatti dai bambini malati e ci
spiega che i disegni sono le ultime tracce che i bambini lasciano nella
vita, perché spesso muoiono poco tempo dopo averli fatti.
Per
le mamme sono dei ricordi. Sono stati pubblicati già due libri di
poesie illustrati con i disegni dei bambini che sono stati qui. Siete
sicuri che volete entrare in terapia intensiva?
Rispondo di sì, che voglio entrare.
Non
avrei mai immaginato che sarei venuta a lavorare in un posto così. Non
avrei mai pensato di fare un lavoro così difficile. Pensate che la mia
prima laurea non è in psicologia, ma in coreografia, una laurea da
ballerina.
Poi
è successo che sono diventata mamma e mio figlio si è ammalato.
Purtroppo nel 1987 questa clinica non esisteva. Io e mio marito siamo
dovuti andare a Mosca per avere una possibilità di cura per il nostro
bambino. Ho fatto tutta la strada che fanno i genitori anche qui: il
ricovero, le cure... però questa strada per mio figlio è finita con la
morte. Allora mi sono messa a pensare a cosa avrei potuto fare per
aiutare gli altri e ho deciso di prendere una seconda laurea in
psicologia. E così sono diventata psicologa. So benissimo cosa sentono
queste madri e so di che cosa hanno bisogno, che cosa si aspettano da me
e cosa io devo dare loro.
Quando
sono venuta a lavorare in questo ospedale pensavo di essere pronta, che
non avrei avuto difficoltà a fare quello che volevo fare. Però di
difficoltà ne ho avute eccome. Non mi sarei mai aspettata che il mio
ruolo prevedesse di dire ai genitori le diagnosi dei loro figli. Non
credevo che sarebbe toccato a me spiegare ai genitori che nonostante
abbiamo fatto tutto il possibile non siamo riusciti a salvare il loro
figlio.
Quando
accade non riesco mai a trattenere le lacrime. In quei momenti mi
faccio la stessa domanda che mi avete fatto voi: perché faccio questo
lavoro? Però quando vedo la gioia, quando vedo che alcuni tra loro
riescono a sopravvivere e sorridere, mi rendo conto che quello che
faccio è necessario, che ha un senso.
Pensate che qualcuno è riuscito persino a dire che io sono troppo allegra, troppo ben vestita, troppo solare. Gli ho risposto che non cambierò mai, che non diventerò mai come vogliono loro. Ho pensato di andare via quando è successo ma poi ho deciso di restare. Per i bambini, per i loro genitori. Però sono consapevole che i limiti esistono. Non so fino a quando sarò in grado di resistere. Ce la metto tutta. Per adesso mi sarebbe impossibile abbandonare questi bambini, dividere la mia vita dalla loro.
Autore: Carlo Spera
Tratto da:
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006
Автор: Карло Спера
Из:
“Путешествие на край ночи.
20 лет после взрыва на ЧАЭС”
Издательство: ViediMezzo (Италия)
Дата: 2006 г.
К сожалению, русского оригинального текста интервью нет.
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