La vita della città di Pripjat’ è durata 16 anni.
Costruita nel 1970 sulle rive del fiume omonimo per
ospitare i lavoratori della centrale nucleare di Černobyl’ (che si trova a
pochi km di distanza, dall’altra parte del bacino acquifero), nel 1986 Pripjat’
contava già 50.000 abitanti ed era una delle cittadine più avanzate e con un
migliore tenore di vita di tutta l’Urss, popolata per lo più da giovani
famiglie istruite: ingegneri, tecnici, insegnanti. Insomma, una piccola città
modello del radioso avvenire sovietico.
Il 27 aprile 1986, un giorno dopo l’incidente nucleare,
l’intera popolazione di Pripjat’ venne evacuata con una lunga fila di autobus e
non vi fece più ritorno. Nell’annuncio radiofonico dato alla cittadinanza,
l’evacuazione sarebbe dovuta essere “temporanea”, per cui alle famiglie fu
permesso di prendere con sé solamente i documenti e lo stretto necessario.
A distanza di 30 anni, Pripjat’ è la città fantasma più
grande del mondo. Palazzi, scuole, alberghi, tutto è rimasto al proprio posto,
senza più traccia di vita. Vie e piazze sono ormai invase dalla vegetazione
spontanea. Il parco giochi con la grande ruota arrugginita è l’immagine più
pregnante della brusca interruzione della vita e delle speranze di Pripjat’: le
attrazioni erano nuove fiammanti, avrebbero dovuto essere inaugurate qualche
giorno dopo l’incidente, durante le feste di Maggio del 1986.
Oggi Pripjat’ è frequentata solo da spedizioni scientifiche
e dal cosiddetto “turismo di Černobyl’”, escursioni strettamente guidate da
agenzie di Kiev nelle zone evacuate. Mentre i lavoratori della centrale di
Černobyl’ rimasti dopo l’incidente sono stati spostati nella cittadina di
Slavutič, a 50 km, fondata appositamente nell’autunno del 1986.
Oltre agli abitanti di Pripjat’, nella primavera e
nell’estate del 1986 a causa dell’elevata contaminazione furono evacuate circa
altre 70.000 persone dai territori circostanti la centrale nucleare di
Černobyl’. Venne infatti istituita la “zona dei 30 km” intorno alla centrale,
detta anche “zona d’esclusione” o “zona d’interdizione”, che arriva a includere
anche foreste e alcuni villaggi della Bielorussia del Sud.
Negli anni successivi (a volte con colpevole ritardo),
vennero inoltre evacuati, abbandonati, e talvolta interrati centinaia di
villaggi in Ucraina, Bielorussia e Russia, anche 100-200 km lontano dalla
centrale, dovunque il livello di radiazioni fosse superiore ai 40 curie/km²:
ricordiamo Svjatsk in Russia, Lelëv in Ucraina, Krjuki in Bielorussia…
Oltre che dalle zone a “trasferimento” obbligatorio, la
gente poteva scegliere, almeno in teoria non sempre in pratica, di essere
trasferita in zone “pulite” dalle proprie residenze in “zona a trasferimento
facoltativo”. La vita dei “černobyliani” trasferiti si è quasi sempre rivelata
piena di difficoltà, rimpianti e spaesamento, spesso confinati in un’esistenza
anonima e alienante nelle periferie delle grandi città. Per questo alcune
persone, soprattutto anziani legati alla loro terra, hanno preferito fare
ritorno ai loro villaggi natii, nonostante il divieto e le elevate radiazioni.
In generale, a causa della catastrofe nucleare di Černobyl’
sono state trasferite circa 350.000 persone tra Russia, Bielorussia e Ucraina.
Testo tratto dalla mostra fotografica La vita contaminata del circolo Legambiente Il brutto anatroccolo.
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