Novokemp, luglio 2017
Riuscire a descrivere Novokemp è un’impresa, se non impossibile, quantomeno estremamente difficile. Fa parte di quella categoria di esperienze che solo quando la si vive in prima persona si può comprendere fino in fondo. (Un po’ come Mosca, prima tappa del nostro viaggio per un paio di giorni: mentre riguardo ora le foto mi rendo conto che non rendono assolutamente la bellezza e la grandezza della città, di sicuro non le emozioni provate nel trovarci lì.)
Riuscire a descrivere Novokemp è un’impresa, se non impossibile, quantomeno estremamente difficile. Fa parte di quella categoria di esperienze che solo quando la si vive in prima persona si può comprendere fino in fondo. (Un po’ come Mosca, prima tappa del nostro viaggio per un paio di giorni: mentre riguardo ora le foto mi rendo conto che non rendono assolutamente la bellezza e la grandezza della città, di sicuro non le emozioni provate nel trovarci lì.)
Estati
passate in treno in giro per l’Europa in vagoni non esattamente di prima classe
mi avevano preparata alle condizioni del viaggio notturno, ma quello a cui non
ero abituata è stato l’essere aiutata da chiunque su quel treno ci abbia visto
in difficoltà: dalla signora che mi ha spiegato come preparare il letto e dove
trovare tutto l’occorrente al signore che ci ha aiutate con le nostre enormi
valigie e che si è svegliato alla nostra fermata per aiutarci a portarle giù
dal treno.
Arriviamo
cariche di bagagli e stravolte da un viaggio in cui abbiamo dormito poco e
niente tra l’emozione e l’ansia, sapendo solo che qualcuno verrà a prenderci
alla stazione; le nostre mille valigie devono renderci molto riconoscibili
rispetto agli altri passeggeri, e siamo accolte da Andrej, il capo del campo, e
Lena, la nostra tutor, che ci viene presentata subito da Andrej come la nostra mamočka; non sbaglia nella definizione,
dal momento che la sua dolcezza, l’allegria e la pazienza che ci dimostrerà
ogni giorno della nostra permanenza sono quelle di una mamma. Abbiamo il tempo
di farci una doccia e riposarci un po’ prima di discutere con lei delle
attività che organizzeremo e di fare il tour del campo assieme agli altri
volontari russi e ai vožatye, i
responsabili di ogni semejka, i sette
gruppi in cui verranno divisi i bambini al loro arrivo, il giorno seguente. È
il primo impatto con due cose: il fatto che tutte le spiegazioni verranno fatte
solo in russo, con conseguenti buchi nella nostra comprensione di alcune parti,
che fortunatamente Lena provvederà sempre a riempire, ed è il primo impatto
anche con il gruppo dei Patrioti, dal momento che il giro del campo si conclude
in un vero e proprio accampamento di tende, dove ci viene spiegato, ci sarà una
sorta di ottavo gruppo formato da giovani in divisa (lo scopo è il recupero di
adolescenti problematici attraverso uno stile di vita militare, metodo
piuttosto diffuso in Russia) che parteciperanno attivamente al campo, qualcosa
che noi non siamo abituati a vedere. Questi ragazzi formano un’ottava semejka, per cui i bambini passeranno le
mattine nei nostri laboratori mentre i capi del gruppo organizzeranno il loro kružok (circolo ricreativo) a cui il “generale” Sizov, il responsabile dei Patrioti ci invita
fin dal primo giorno a partecipare, e nei pomeriggi parteciperanno ai giochi
del campo. Inizialmente stupite dalla presenza di questi ragazzi che si
allenano tutte le mattine e in gruppo si muovono a passo di marcia, alla fine
restiamo coinvolte dalla loro allegria e dall’ambiente di stima e rispetto che
si percepisce fra i membri del gruppo e verso tutte le persone del campo; più
volte ci invitano alla sera a prendere un tè attorno al fuoco assieme a
loro.
Passato
l’incontro con l’utilizzo passivo del russo, arriva il momento di quello
attivo: alla sera partecipiamo infatti alla prima planërka, la riunione a cui partecipano tutti i kružkovody e i vožatye, in cui tutti sono chiamati a parlare della giornata, di
cosa è andato bene e cosa invece male, e ad organizzare il gioco per il giorno
seguente. Colte alla sprovvista dalla richiesta di dire qualcosa, ci ritroviamo
a balbettare qualche frase, tra le difficoltà linguistiche e il non sapere
ancora di cosa dobbiamo parlare. Il copione, per le planërki successive, migliora: ci prepariamo tutte, chi più e chi
meno, qualcosa da dire, poi esordiamo con l’immancabile den’ prošël chorošo (“la giornata è andata bene”), ci dimentichiamo
buona parte di quello che volevamo dire, inciampiamo in verbi che sbagliamo a
coniugare e parole declinate in modo sbagliato, ma riusciamo sempre a farci
capire.
Le
giornate erano organizzate più o meno tutti i giorni con regolarità: al mattino
c’erano i kružki, i laboratori tenuti
da noi; il mio compito era tenere il corso di lingua araba. Alla fine dei primi
giorni non capivo nemmeno dove stavo dalla fatica di passare dall’arabo al
russo direttamente, ma passata la difficoltà del primo adattamento e la paura
del trovarmi a spiegare una lingua, da sola, a dei bambini parlando in una
lingua che non è la mia prima, era bellissimo vedere i bambini che venivano ad
imparare, con qualche sforzo, a scrivere il loro nome in caratteri arabi e
qualche semplice frase. Ancora più bello era quando il bimbo che veniva ad ogni
lezione mi trovava in giro per il campo e mi salutava in arabo, tutto
soddisfatto. Al pomeriggio invece c’erano giochi organizzati per tutto il
campo, divisi in diverse stazioni dove noi, in coppia con un assistente russo,
spiegavamo il gioco e controllavamo la loro riuscita.
Questi
giochi erano sempre organizzati in base ad un tema che coinvolgeva tutta la giornata,
come il giorno degli indiani o la giornata internazionale, e tutti noi dovevamo
vestirci in base al tema; ogni giorno dovevamo recarci alla kostumërka, un enorme camerino pieno di
abiti di tutti i tipi con cui poterti preparare alle attività. Alla sera, alternativamente,
veniva organizzata una serata in discoteca nel klub oppure uno spettacolo, in genere ispirato al tema che aveva
caratterizzato tutta la giornata. Quello che mi ha colpita di tutto questo è
stata l’organizzazione enorme dietro ad ogni giornata; i giochi del pomeriggio
erano sempre diversi e sempre perfettamente pensati, per ogni tema c’erano
mille idee per i vestiti, il tutto organizzato da ragazzi giovani, intorno ai
vent’anni. Indimenticabile, per me, è stata la giornata sul Signore degli Anelli, conclusasi per
davvero con il nostro Frodo che gettava l’anello nel fuoco, rincorso dal nostro
Gollum, dopo una giornata passata a preparare i costumi e gli oggetti dei
bimbi, sempre con la colonna sonora del film che risuonava nel campo.
Ma
questo è solo per fare un esempio, perché ce ne sarebbero molte altre da citare
– impossibile dimenticare la giornata internazionale in cui abbiamo preso parte
ad un ballo popolare russo per lo spettacolo, o la giornata della moda in cui
abbiamo aiutato i patrioti a vestirsi secondo lo stile vintage per una sfilata
in cui noi stesse ci siamo ritrovate ad essere modelle. Senza dimenticare, poi,
il biznes igra, il gioco business, quello che probabilmente
mi ha colpita di più, in cui i bambini prima guadagnavano i soldi facendo dei
piccoli lavoretti che gli assistenti assegnavano loro come pulire il pavimento
di una stanza, e poi li potevano spendere comprando dolci o panini oppure in
attività come il centro di bellezza, il tutto sempre organizzato dagli stessi
bambini.
Lavorare
con i bambini è sempre un’esperienza piena di sorprese, questo lo sapevo già
prima di partire, non era la prima volta che mi impegnavo a fare da assistente
in un campo per bambini; lavorare con i bambini russi di Novokemp è stato
davvero indescrivibile. Non dimenticherò mai quanto loro si sforzassero di
aiutarmi mentre cercavo di ricordarmi parole in russo per parlare con loro (e i
bimbi, alla fine, sono gli insegnanti migliori che abbia mai avuto), quanto
sembrasse mi leggessero nel pensiero e le trovassero loro al posto mio, vederli
partecipare a tutte le attività del campo con entusiasmo, a tutti i giochi
pomeridiani e a preparare sempre spettacoli originali per le serate. Le mille
domande che mi hanno fatto su qualsiasi cosa, e in “qualsiasi” rientra davvero
di tutto, come la bimba che mi ha chiesto il nome di mio padre, o il bimbo che
mi ha chiesto come si prepara la pizza per poi dirmi come invece la impasta
lui. La loro gentilezza, la tenerezza dei comportamenti, l’affetto che mi
riversavano addosso tutti i giorni, dalla mattina quando appena sveglia li
incrociavo e loro mi abbracciavano per darmi il buongiorno alle mille caramelle
che volevano regalarmi ogni giorno.
Dire
che a Novokemp era come stare in una seconda famiglia può suonare molto come un
cliché. Eppure non c’è altro modo per definire il rapporto che si era creato
tra di noi: la nostra mamočka russa,
Lena, che per tre settimane ci ha davvero adottate ricordandoci ogni giorno gli
orari di tutte le attività a cui dovevamo partecipare e fermandosi ogni sera
dopo la planërka per una seconda planërka, in cui spiegarci tutto quello
a cui il nostro russo non arrivava della riunione ufficiale con tutti gli altri
assistenti con gesti, mimica, qualsiasi cosa, e ce la faceva sempre. Poi c’erano
le sorelle, le mie colleghe italiane che non conoscevo prima di partire e con
cui alla fine del viaggio ho condiviso tantissimo, sempre pronte a venirci
incontro l’una con l’altra al campo quando avevamo difficoltà con i laboratori
o un qualsiasi problema. E i parenti, di vario grado, che sono stati per noi i
volontari russi con cui abbiamo stretto amicizia e con cui abbiamo parlato,
lavorato, festeggiato, discusso, mangiato e bevuto ogni giorno e ogni notte. Ci
sono davvero mille aneddoti di storie che abbiamo condiviso, tra errori
linguistici, cene russe e italiane preparateci a vicenda, la sauna russa che è
davvero un’esperienza mistica, tutto quello che ho imparato sul calcio russo,
le gite fuori porta e il mio entusiasmo bambinesco nel trovare opere di un mio
concittadino, Giacomo Quarenghi, in mezzo alla Russia (entusiasmo supportato da
Saša, l’altro capo del campo e nostra guida per quell’escursione), le albe
viste e le partite di ping-pong alle sei del mattino.
Mi
rendo conto che quanto scritto sembri, in effetti, il trionfo della retorica,
come se andare a Novokemp fosse come andare a Disneyland, dove non puoi essere
triste e non c’è niente che può andare male. Come in tutte le esperienze ci
sono stati momenti difficili anche a Novokemp (anzi, ce ne sono stati già prima
di partire grazie ai problemi con gli inviti per il visto, non proprio un
inizio da sogno) e discussioni di vario genere, ma la verità è che alla fine di
tutto il bilancio complessivo del campo mi parla di quanto, umanamente, io abbia
imparato, ed è così tanto che tutto il resto davvero passa in secondo piano.
Claudia Esposito - 24 anni
Università Statale di
Milano
Mediazione linguistica e
culturale
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