La recente visita al cimitero di Ivankov, nelle terre ucraine
contaminate di Chernobyl, mi ha sconvolto il cuore e la mente: tombe di
giovani disseminate in quel tipico ordine sparso che le contraddistingue
e che conferisce un senso di maggiore intimità e contatto con la
natura, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna.
Uno spartiacque invisibile traccia un doloroso percorso e si apprezza nitidamente in un punto preciso: l’anno 1986. Prima, le date scolpite sulle lapidi paiono seguire un loro “normale” ciclo: le morti delle persone anziane e vecchie predominano, come è lecito attendersi. Dopo il 1986 c’è, invece, un incremento notevole di tombe di giovani la cui vita risulta spezzata fra i 25 e i 35 anni.
A saperla leggere, più di tanti trattati scientifici e di inutili discussioni fra le opposte fazioni, questa è la triste eredità di Chernobyl.
La visita al cimitero cambia il senso finora dato ai “bambini di Chernobyl”: i loro occhi diventano, infatti, quelli nostri che devono responsabilmente rimanere aperti verso uno spazio temporale che va oltre la tempistica burocratica imposta dalla legislazione sull’accoglienza.
Ormai il dado è tratto: il danno della radioattività ha cominciato a sgretolare il patrimonio genetico di quella che è ormai la seconda generazione dei bambini di Chernobyl, colpendo fra i tanti, i geni deputati alla sintesi del ciclo dei folati, fra cui la vitamina B12. La compromissione di questi geni determina un aumento dell’omocisteina, un amminoacido considerato un fattore di rischio a sé stante perché, indipendentemente dalla presenza di altri fattori predisponenti, è in grado di causare da solo un pericolo maggiore per patologie come l’aterosclerosi, l’ictus, gli infarti del miocardio ai quali, il più delle volte, si associano anche trombosi venose, embolie polmonari, malformazioni fetali, decadimenti senili, fratture spontanee.
Se al follow up del professor Bandazhevsky che ha scoperto, in più della metà dei bambini seguiti e che vivono nelle zone contaminate dal fallout di Chernobyl, un aumento dell’omocisteina, si aggiunge l’effetto diretto dei radionuclidi nell’insorgenza dei tumori, senza – peraltro - dimenticare gli stili di vita (alcolismo, tabagismo, ecc.), si spiega la tragica realtà delle tombe.
Con molta facilità e qualunquismo qualcuno potrà affermare: “Ma sono passati più di 31 anni da quel 26 aprile 1986!”.
Al contrario, le tombe ci indicano che qualcosa di più dovevamo fare in questi 31 anni e, soprattutto, che non è più tempo di ritardi.
Uno spartiacque invisibile traccia un doloroso percorso e si apprezza nitidamente in un punto preciso: l’anno 1986. Prima, le date scolpite sulle lapidi paiono seguire un loro “normale” ciclo: le morti delle persone anziane e vecchie predominano, come è lecito attendersi. Dopo il 1986 c’è, invece, un incremento notevole di tombe di giovani la cui vita risulta spezzata fra i 25 e i 35 anni.
A saperla leggere, più di tanti trattati scientifici e di inutili discussioni fra le opposte fazioni, questa è la triste eredità di Chernobyl.
La visita al cimitero cambia il senso finora dato ai “bambini di Chernobyl”: i loro occhi diventano, infatti, quelli nostri che devono responsabilmente rimanere aperti verso uno spazio temporale che va oltre la tempistica burocratica imposta dalla legislazione sull’accoglienza.
Ormai il dado è tratto: il danno della radioattività ha cominciato a sgretolare il patrimonio genetico di quella che è ormai la seconda generazione dei bambini di Chernobyl, colpendo fra i tanti, i geni deputati alla sintesi del ciclo dei folati, fra cui la vitamina B12. La compromissione di questi geni determina un aumento dell’omocisteina, un amminoacido considerato un fattore di rischio a sé stante perché, indipendentemente dalla presenza di altri fattori predisponenti, è in grado di causare da solo un pericolo maggiore per patologie come l’aterosclerosi, l’ictus, gli infarti del miocardio ai quali, il più delle volte, si associano anche trombosi venose, embolie polmonari, malformazioni fetali, decadimenti senili, fratture spontanee.
Se al follow up del professor Bandazhevsky che ha scoperto, in più della metà dei bambini seguiti e che vivono nelle zone contaminate dal fallout di Chernobyl, un aumento dell’omocisteina, si aggiunge l’effetto diretto dei radionuclidi nell’insorgenza dei tumori, senza – peraltro - dimenticare gli stili di vita (alcolismo, tabagismo, ecc.), si spiega la tragica realtà delle tombe.
Con molta facilità e qualunquismo qualcuno potrà affermare: “Ma sono passati più di 31 anni da quel 26 aprile 1986!”.
Al contrario, le tombe ci indicano che qualcosa di più dovevamo fare in questi 31 anni e, soprattutto, che non è più tempo di ritardi.
Massimo Bonfatti presidente di Mondo in Cammino
Data: 30.09.2017
Fonte: www.progettohumus.it
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