Novokemp, 1° turno 2019 (06-26 giugno)
La
prima volta che lessi la parola “Novokemp” fu tra le notifiche che noi studenti
dell’università statale di Milano ci ritroviamo nella sezione di Ariel, il
portale online degli studenti. La proposta, ammetto, mi aveva subito
incuriosita. Non solo per la possibilità così concreta che offriva di partire
di lì a qualche mese con un programma già tutto organizzato, ma inoltre si
sottolineava come saremmo stati a diretto contatto con i bambini e altri ragazzi
russi tre settimane consecutive e per di più a spese facilmente sostenibili. Mi
segnai velocemente la data e l’orario dell’incontro e nonostante coincidesse
con un’altra importante lezione decisi di andarci. Non volevo persone che mi
facessero da tramite, volevo vedere e ascoltare con le mie orecchie.
Ecco,
sono una studentessa che frequenta il primo anno di corso di lingua russa
perciò non mi spaventai neanche troppo quando non capii praticamente nulla di
quello che venne detto dal direttore di Novokemp, Saša. Nel mentre, a
intervalli, Stefano, il ragazzo di “Legambiente” che promuoveva il progetto in
Università, si intervallava con lui per poter tradurre in italiano per chi come
me era in difficoltà. Riuscivo a carpire giusto qualche parola in russo o
perché assomigliava alla pronuncia italiana o semplicemente perché rientrava
nello stretto vocabolario che avevo acquisito in quei miei primi cinque mesi di
studio, ma allo stesso tempo nella mia testa si innescava l’idea che dovevo
partire, per forza. Non so perché ma ero convinta che quell’esperienza “full
immersion” sarebbe stata fondamentale per migliorare la mia lingua. La ritenevo
allora come una scorciatoia che mi avrebbe agevolato sia con l’esame di fine
anno sia con lo studio della lingua nell’anno successivo. Ci diedero in seguito
informazioni inerenti alla vita che avremmo fatto al campo, alla temperatura
che avremmo trovato, alle spese che avremmo dovuto affrontare per il viaggio,
ma tutto questo lo ascoltavo come fosse una sinfonia in sottofondo perché nella
mia testa già mi immaginavo a Mosca, al campo, a parlare con persone
perfettamente sconosciute in una lingua che a malapena sapevo leggere.
Sono
una sognatrice, lo sapevo e mi piaceva la cosa, stette di fatto che però tutto
divenne realtà e la sera del 3 giugno alle 10.30, con un ritardo di mezz’ora
dell’aereo misi per la prima volta piede sul suolo della Federazione russa. Ero
felice, entusiasta ma soprattutto elettrizzata. La prima cosa che feci appena
passata la dogana fu quella di acquistare una SIM, sapevo che sarebbe stata
fondamentale, non solo per vedere la mia posizione nelle mappe, ma soprattutto
per avere un traduttore sempre a portata di mano. Tutto fu estremamente
semplice e piacevole. Restai affascinata non solo dalla bellezza di Mosca,
dalla grandezza delle sue strade, dalla maestosità dei suoi edifici, ma
soprattutto dalla disponibilità delle persone. Nonostante le metro non fossero
fornite di scale mobili in tutti i punti non ci fu una sola scala che feci
portandomi la valigia da sola. Non ci fu volta che, fermando un passante,
questo non mi desse amichevolmente indicazioni e consigli e casualmente mi
capitò anche di conoscere un ragazzo del posto che non solo mi portò a mangiare
piatti tipici russi ma che avendo fatto tardi mi accompagnò fino a dove
alloggiavo insistendo perché non tornassi da sola, nonostante fossi a poche
centinaia di metri dal centro.
Feci
in compenso molta fatica con la lingua, anche in centro a Mosca difficilmente i
russi conoscono la lingua inglese e mi ritrovavo a tradurre ciò di cui avevo
bisogno con il telefono. Viaggiare in metro, inoltre, essendo le linee molte e
molto lunghe non era così intuitivo. Fu per questo forse che camminai così
tanto da beccarmi due belle vesciche su entrambi i piedi. Stava di fatto però
che, quando il 5 giugno mi raggiunsero Anna, Giulia e Martina per partire poi
in direzione di “Novokemp”, ero dispiaciuta di lasciare già Mosca. Ma ci volle
poco perché questa sensazione fosse rimpiazzata da un’altra estremamente più
positiva: la curiosità.
Arrivammo
a destinazione nel mezzo della notte: dopo 7 ore di macchina e con fame e
stanchezza addosso. Ma nonostante fossero le due fummo accolte da un gruppo di
russi con fare molto festoso. Feci finta di capire tutto quello che gentilmente
ci dicevano e, seguendo le altre nella speranza che capissero più di me,
cercavo con le poche parole che avevo imparato di arrangiare una frase. Non ce
la feci! Così, dopo che Galina ci mostrò le nostre camere, salutammo e cademmo
in un sonno profondo.
I
venti giorni a Novokemp non furono come me li aspettavo. Non terminai la mia
esperienza con la padronanza della lingua, a dire il vero nemmeno riuscivo a
capire tutti i discorsi che facevano… fu tutt’altro, fu molto di più.
I
primi giorni li definirei dello “stupore”. Iniziai, mentre prendevo confidenza
con la nuova realtà, a notare abitudini diverse e allo stesso tempo a
paragonare tutto a ciò che avveniva in Italia. La prima cosa sbalorditiva era
come i bambini dai sei anni ai quindici si facessero il bucato da soli, come
pulissero le loro stanza e si rifacessero il letto ogni giorno. Restai stupefatta
poi su quanto ascoltassero. Certo erano bimbi e come era da aspettarsi qualche
elemento un po’ più vivace ci doveva essere, eppure al secondo richiamo anche
il bambino più scalmanato tornava al suo posto. Era inoltre stato vietato loro
l’uso del telefono e non vidi mai un loro telefono in giro, anzi spesso
sottovoce mi dicevano di nascondere il mio di telefono che altrimenti rischiavo
di essere sgridata. Dal canto mio non potevo fare a meno di paragonarli ai
bambini con cui avevo a avuto a che fare in Italia nei campi scuola, o a scout,
ai miei cugini tutti più piccoli di me e che ho visto crescere, o anche solo a
me stessa bambina. Due realtà completamente diverse. I bambini a cui ero
abituata io erano molto meno indipendenti, più piagnucolosi e sicuramente più
viziati. Gli elementi più vivaci spesso dovevano essere costretti con piccoli
ricatti o minacce di punizioni per fargli fare le attività di gruppo e comunque
non bastava perché ricordavo come fosse difficile e quanto mi sgolassi spesso
senza risultato. Io stessa non ho infine mai fatto un bucato prima dei
vent’anni, quando iniziai a vivere da sola. Ero sbalordita.
Nel
frattempo, a parte le attività con i bambini con le altre ragazze, iniziai a
prendere confidenza con tutto lo staff, a impararne i nomi e a condividere con
ognuno di loro momenti e discorsi. La sera solitamente la passavamo insieme in
compagnia di tutto il gruppo di animatori: una volta a costruire castelli di
carte, un’altra a ridere di come loro provassero a pronunciare parole in
italiano oppure a berci tisane e ad assaggiare cibi russi mentre li ascoltavamo
che chiacchieravano del più e del meno, cercando di interagire come meglio
potevamo.
Le
nostre giornate poi, nonostante avessero una routine che le faceva assomigliare
l’una all’altra, furono così intense da desiderare che non finissero mai, o
perlomeno non così presto. Il rapporto con i bimbi fu inoltre qualcosa di
magico. I primi due giorni ci osservavano da lontano e solo alcuni si
avvicinavano per salutarci e chiederci qualche informazione generale come il
nostro nome, la nostra età o da dove arrivavamo. Il problema era dopo, quando
iniziavano a parlare di altri argomenti e noi puntualmente non capivamo cosa ci
stessero chiedendo. Ma è qui che successe qualcosa. Non so come o perché, stava
di fatto che spesso non servivano le parole per esprimere gioia, felicità nel
conoscersi o per una semplice partita a volley. Si sciolsero quei confini dati
dalla lingua e dalle circostanze e spesso con loro bastava una carezza o un abbraccio
alle parole. Fu così che dai più piccoli ai più grandi, tutte fummo sommerse di
attenzioni, coccole, insegnamenti e bigliettini. Se i bambini per natura sono
estremamente affettuosi e disponibili, i bambini russi che conoscemmo noi lo
erano ancora di più. Dacché passavamo le ore libere tra di noi e io a studiare
grammatica, finimmo puntualmente a passare ore e ore nelle casette dove alloggiavano
loro per giocare, chiacchierare, passare ulteriore tempo assieme.
Altro
momento molto diverso dalle nostre abitudini era l’ora dei pasti. I pasti erano
semplici ma nutrienti e, nonostante il primo giorno bere acqua tiepida
aromatizzata alla frutta a pranzo per noi fu un po’ un trauma, alla fine dei
venti giorni quando stavamo per andarcene sapevo che mi sarebbe mancata un po’
anche quella. Ma, cibo a parte, una cosa che poi notammo tutte fu come il
momento dei pasti, a differenza nostra, fosse molto sbrigativo. I russi non
amano stare seduti a tavola a chiacchierare del più e del meno, anzi, spesso
neanche fai in tempo a finire di mangiare quello che hai nel piatto che il
gruppo con cui sei andato a mangiare si sta già alzando per andarsene. In
compenso però, la notte, una volta che i bambini erano stati mandati a dormire,
si mangiava fino a tardi… e si beveva fino a tardi. Tisane, birra, kvas,
cognac, vino, insomma quello che più ti garbava, come avrebbe detto Martina nel
suo impeccabile toscano.
Gli
ultimi giorni, infine, furono i più malinconici. I bambini non passava giornata
in cui non ci ricordassero il conto alla rovescia alla fine del campo, in cui
ci dicevano che gli saremmo mancate e in cui non ci facessero regalini, o ci
scrivessero letterine. Io e le altre ragazze dal canto nostro cercavamo di
ricambiare in tutti i modi. Passammo il pomeriggio prima dell’ultima sera a
scrivere in russo lettere per tutti. Per lo staff che ci aveva fatto sentire
come a casa non facendoci mancare nulla, per i bambini, per noi stesse. Ci
continuavamo a ripetere che comunque la vacanza non era finita, che ci
aspettavano altri due giorni a Mosca, che alla fine non dovevamo essere tristi,
ma nell’effettivo il momento dei saluti fu più malinconico del previsto. Saša,
Galina, che fu da noi soprannominata “mamma chioccia” per tutte le attenzioni e
cure che aveva nei nostri confronti, e gli altri ragazzi con cui passavamo gran
parte del tempo ci accompagnarono fino al binario e aspettarono fino a quando
il treno non fu partito, mentre noi quattro, malinconiche e in lacrime,
salutavamo dal finestrino.
Riassumere
così le sensazioni, i pensieri e le vicende vissute è ovviamente estremamente
riduttivo. Come riduttivo era il mio obiettivo prima di partire. Partire per
un’esperienza simile è sì importante per la lingua ma ciò che ti arricchisce di
più è l’anima. In un mondo consumistico a cui siamo abituati ora, a cui io in
primis sono abituata, ho non solo provato una vita più semplice che ho
apprezzato molto di più della classica vacanza nell’hotel in centro, ma ho
anche avuto il piacere di conoscere persone che nonostante la differenza di
lingua, di tradizioni e di cultura hanno avuto la capacità di farci sentire a
casa, di farci apprezzare lo spirito della loro patria, ma soprattutto di farci
amare ancora di più la lingua che stiamo imparando. Grazie davvero. Ci vediamo
l’anno prossimo a “Novokemp”.
Annyka Rossi - 29 anni
Università Statale di Milano
(sede di Sesto San
Giovanni)
Mediazione linguistica e
culturale
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