Novokemp, agosto 2017
Ho
deciso di intitolare così il resoconto della mia esperienza a Novokemp,
menzionando uno dei miei film preferiti che racchiude in sé valori tra cui
l’importanza della famiglia, l’affetto di un amico, la capacità di adattarsi
alle situazioni più difficili e, primo fra tutti, la spensieratezza.
Perché
sì, in un mondo che non sa quello che vuole l’unico modo per vivere felici è
essere spensierati. Questo è forse il regalo più grande che mi hanno fatto quei
150 bambini durante il tempo condiviso insieme.
Il
6 agosto prende il via un’avventura di tre settimane che coinvolge e sconvolge
sette ragazze. Alle 4 di mattina, nonostante le poche ore di sonno,
all’aeroporto di Malpensa era già palpabile la frenesia e l’agitazione
nell’aria, oltre che sui nostri volti. Valeria, Ilaria, Carol, Giada, Jasmine e
Beatrice sarebbero state le mie compagne di viaggio. Dopo 3 ore di volo
atterriamo sul suolo russo: Mosca. Cogliamo l’occasione di visitarla per un
giorno e mezzo, rimanendo sorprese dal piacevole clima e dall’atmosfera slava
che ci circonda. La sera del secondo giorno, ci dirigiamo verso Kievskij vokzal, con i nostri bagagli da
25 kg cadauno, nemmeno fossimo dirette verso il Burundi. Ci apprestiamo a
trovare i nostri posti e ad accettare le condizioni del treno, che ci ospiterà
per parecchie ore, fino a raggiungere la città di Uneča nell’oblast’ di Brjansk. Sul treno
incontriamo deliziosi personaggi che sempre mi porterò nel cuore, come un
signore “ribattezzato” Gianfranco.
Sono
circa le 5.30 di una mattina uggiosa ed arriviamo ad Uneča. È presto, ma non
troppo per sorridere alla vista di Katja e Andrej, rispettivamente la nostra
responsabile, o meglio “mamočka”, e il direttore del campo. In uno stato
comatoso, dopo tante buche ed interminabili campagne, arriviamo a Novokemp.
Troppo stanche e sconvolte per ammirare la vastità del posto, ci gettiamo sul
letto. Dopo qualche ora di sonno, ci svegliamo e ci accorgiamo che il campo era
già sveglio da un pezzo, che i bambini stavano salutando le proprie famiglie e
i primi schiamazzi e risa si sentivano già.
Ad
un primo acchito mi è sembrato come una piccola cittadina a sé. Sparse lungo il
territorio ci sono sette piccole casette dove alloggiano i bambini durante la
loro permanenza al campo. Sono rimasta subito colpita dai loro colori e dai
personaggi di cartoni animati dipinti sui muri. Attorno c’erano la mensa, la
casetta adibita a “radio”, la nostra gostinica
(abergo) e tanto altro…
Nel
pomeriggio siamo state accolte dagli animatori con un grande sorriso e dopo
poco abbiamo capito quanto fosse complicato il loro compito: erano distribuiti
due per casetta e dovevano rispondere alle esigenze dei bambini oltre che
intrattenerli. La loro caratteristica principale era il sorriso. Lo abbiamo
notato subito e subito è stato contagioso.
Il
primo e probabilmente unico ostacolo è stata la lingua russa. Di primo impatto
si è presentata come ostica, impenetrabile e incomprensibile, ma poi si è
lasciata addolcire grazie al grande aiuto della nostra mamočka Katja che ci seguiva come un’ombra. È stata la nostra
guida, una costante presenza materna che ci dava istruzioni e ci faceva sentire
un po’ meno la nostalgia di casa. Quasi sicuramente senza di lei non sarebbe
stato lo stesso, quindi un grande grazie va a lei. Giorno dopo giorno il
rapporto con la lingua migliorava grazie al continuo contatto con i bambini
durante le attività e alle lunghe nottate a parlare davanti al fuoco. È proprio
vero che non si ha mai certezza di sapere perfettamente qualcosa fino a quando
non se ne fa esperienza sul campo. I bambini, infatti, sono stati degli ottimi
professori: per ore e ore ci tempestavano curiosi di domande sull’Italia e su
di noi.
Durante
le ore mattutine, fino a pranzo, io e Valeria ci occupavamo delle attività
artistiche e poi di tutto quello che potesse riguardare la manualità, il gioco
e l’arte. I bambini si divertivano a seguirci e a creare i propri lavoretti,
utilizzando la loro fantasia, a volte stravolgendo il progetto iniziale, altre
fidandosi ciecamente di noi, ma pur sempre producendo ottimi risultati.
Ovviamente questo tipo di attività attirava i più piccini, ed è stato
assolutamente appagante vivere con loro tre settimane, vederli sorridere,
nonostante l’influenza che ha indebolito molti di loro. Di loro mi ha sorpreso
soprattutto l’entusiasmo con cui accoglievano tutte le nostre proposte.
Dopo
pranzo, si coglieva l’occasione di recuperare le poche ore di sonno notturne
con la tichij čas (l’ora del
silenzio), il riposino pomeridiano. Il più delle volte però quest’ora la passavamo
in piscina con i collaboratori del campo o a fare la spesa, quindi niente che
potesse riposare le nostre stanche membra.
Nel
pomeriggio venivano organizzati dei giochi che stravolgevano del tutto
l’aspetto del campo, come “il giorno degli indiani”, “natale a Novokemp”.
Un’altra volta ancora Novokemp si è trasformata in una vera e propria città con
aziende, negozietti, circo e cinema. Il nostro ruolo era quello di aiutare i
collaboratori nell’organizzazione delle attività e a volte spettava proprio a
noi spiegare ai bambini le regole del gioco.
Come
dimenticare gli spettacoli “messi in piedi” in due ore? Balletti e vere proprie
scenette comiche venivano preparate in pochissimo tempo! La musica accompagnava
ogni ora del giorno fin dal risveglio, quando alle otto ci scuotevano le
canzoni del mitico dj Maksim direttamente dall’europea San Pietroburgo a suon
di Rammstein e musica pop. Queste canzoni sono state la colonna sonora della
nostra avventura.
Dopo
cena, quasi sempre andavamo al “klub” per ballare a ritmo di musica russa e non
solo. Mi ricordo benissimo la prima volta che ho ascoltato delle tipiche
canzoni pop russe, senza capirci nulla e schifandole quasi, buffo è che al
termine delle tre settimane queste canzoni sono entrate nelle vene. In questa
discoteca improvvisata ballavano dai più piccoli ai più grandi e i bambini
erano proprio i più scatenati.
Dopo
i momenti di svago era il momento della “planërka”, una riunione in cui, tutti
seduti in cerchio, esprimevamo le nostre opinioni e i nostri pensieri riguardo
la giornata appena trascorsa.
Grazie
alla nostra Katja, abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni paesi
vicini, meravigliandoci di come in Russia ci potesse essere ancora così tanta
differenza tra ruralità e città. Siamo state accolte come vere e proprie
ospiti, i paesani non hanno esitato ad essere amichevoli con noi, e
incuriositi, parlavano, chiedevano foto insieme a loro e non hanno perso
l’occasione di farci assaggiare delle specialità nostrane, ovviamente,
immancabile la grečka (grano
saraceno). Per non parlare di quel giorno in cui siamo state presenti alla festa
in onore dell’inno russo, un vero spettacolo.
Inutile
dire che i legami che ho costruito all’interno del campo si sono rafforzati
giorno dopo giorno, permettendomi di instaurare sia con le ragazze italiane che
con i collaboratori un vero e proprio rapporto di amicizia sincera, nonostante
le difficoltà linguistiche. Ho imparato che se c’è il desiderio di comunicare,
di trasmettere emozioni e pensieri, non importa il come e il quando, perché
esiste sempre un mezzo efficace per farlo: gli occhi e il cuore. Quante volte i
bambini si saranno chiesti cosa stessi blaterando, o perché parlassi così male,
ma questo non li ha dissuasi dal presentarsi ogni mattina alle 10 sotto il
tetto del “Papugaj kafe” (Il Caffè del Pappagallo), il nostro laboratorio. Le
lunghe nottate al fuoco a parlare sono servite più di due anni di lezioni di
russo all’università. Ho imparato che la Russia è molto più vicina di quanto
pensiamo. A questo proposito mi porto nel cuore un motto: “dve strany, odin narod”, due nazioni uno stesso popolo, e io
aggiungerei “uno stesso cuore”.
Il
fatto che ci siano dei ragazzini che provengono da città contaminate dalle
radiazioni passa in secondo piano, perché mai si penserebbe che vivano delle
situazioni difficili visti i loro sorrisi.
Mi
ero ripromessa di non piangere l’ultimo giorno, ma al klub, sedute in cerchio
cantavamo “Evpatorija” e le lacrime scorrevano sui nostri visi: “Ja tebja ne skoro pozabudu”, non ti dimenticherò
presto Novokemp.
Giulia Daghetta - 21 anni
Università Statale di
Milano
(Mediazione linguistica e
culturale)
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