Autore: Carlo Spera
Tratto da:
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006
Дозиметрист замеряет уровень радиационной активности в четвертом энергоблоке (фото: И. Костин). Dosimetrista misura il livello delle radiazioni nel quarto reattore (foto: I. Kostin). |
IGOR KOSTIN
Soprannominato
“l’uomo leggendario” dal Washington Post, fu il primo fotografo a
raggiungere Cernobyl poche ore dopo l’incidente.
Cernobyl
è un problema, un enorme problema. E non solo per il mio paese,
l’Ucraina, ma anche per tutti gli altri paesi del mondo. Ho visto
tantissimo dolore, e mi duole parlarne. Ringrazio il Signore perché
finalmente ho la possibilità di raccontare attraverso le immagini tutto
quello che ho visto con i miei occhi in questi ultimi venti anni. Venti
sono i paesi del mondo dove è stato pubblicato il mio libro. Sono lieto
che finalmente la verità su Chernobyl sarà resa nota. Voglio ringraziare
tutti quelli che hanno preso a cuore le problematiche relative al
disastro, e ringrazio anche tutti i paesi che, dopo Chernobyl, hanno appreso la lezione vietando la costruzione di nuove centrali nucleari.
Per
questo mi duole dover dare la notizia che due settimane fa, il 23 marzo
2006, il governo del mio paese ha approvato un piano che prevede la
costruzione, entro il 2030, di ben ventidue reattori nucleari in
territorio ucraino. È un fatto clamoroso considerando che la ferita di
Cernobyl è ancora aperta e sanguinante. In Ucraina la bugia di Cernobyl
è presente ogni giorno e ogni minuto: oramai è radicata nell’anima
delle persone. Prego il Signore che restituisca la ragione a chi ha
preso questa decisione e che il progetto non venga mai realizzato.
Quando
esplose il reattore numero quattro gran parte delle scorie radioattive
che erano al suo interno sono state letteralmente sparate sul soffitto
del reattore numero tre. La dose di cinquecento röntgen l’ora viene
considerata letale per un essere umano. Se vieni esposto a una dose del
genere c’è il rischio che quando prendi un bicchiere in mano e poi lo
lasci sul bicchiere rimangano i pezzi della tua pelle, della tua carne.
Sul tetto del reattore numero tre c’erano dei posti dove il livello
delle radiazioni raggiungeva la quota di quindicimila röntgen l’ora.
La
commissione governativa che lavorava alla centrale aveva deciso
inizialmente di ripulire il tetto del reattore numero tre ricorrendo
all’aiuto dei robot, e infatti ne sono arrivati molti di produzione
tedesca e giapponese. Dovevano essere manovrati a distanza, in modo che
potessero rigettare tutte le scorie radioattive all’interno del reattore
esploso. Purtroppo però non hanno potuto far niente a causa dell’alto
livello delle radiazioni che faceva saltare i circuiti elettrici. Alcuni
robot semplicemente si bloccavano e non riuscivano più a muoversi;
altri invece impazzivano e si buttavano all’interno del reattore numero
quattro; ce n’è stato uno che cadendo si è agganciato a un pezzo del
tetto ed è stato possibile recuperarlo con l’utilizzo di un elicottero:
alla fine, però, il robot è risultato comunque inutilizzabile.
Così hanno deciso di mandare sul tetto i cosiddetti robot biologici,
che poi erano semplici soldati. Soldati che non avevano nessuno di quei
mezzi di protezione che abbiamo a disposizione oggi. All’epoca si
proteggevano con fogli di piombo che venivano ritagliati con le forbici e
legati al corpo per proteggere almeno il midollo osseo, il cervello e i
genitali.
I soldati salivano sul tetto in turni di 20-40 secondi, e nell’arco di questo tempo riuscivano a fare soltanto due colpi di pala e a raccogliere una piccolissima quantità di scorie radioattive.
Pensate
alla situazione... incredibile... è inconcepibile che alcuni esseri
umani abbiano mandato altri esseri umani a lavorare a mani nude e senza
protezioni in mezzo a campi radioattivi dove la soglia di sicurezza
superava di centinaia di volte il livello accettabile. E questo soltanto
per liberare quel tetto dalle scorie.
Le
foto che ho fatto a queste persone sono quelle che mi sono più care,
perché a parte la loro unicità rappresentano proprio l’eroismo umano. Si
tratta di nove fotografie che raffigurano i Liquidatori mentre si sacrificano senza porsi grandi problemi, senza ambizioni, soltanto perché quello che stavano facendo andava fatto.
Pensate
che non si sa nulla del destino della maggior parte di questi eroi, un
po’ per quello che è avvenuto nel periodo del dopo Cernobyl, un po’
perché erano soldati, e voi sapete bene che i militari cercano di tenere
nascosti i loro segreti. Persino i loro nomi sono rimasti ignoti. Mi
auguro che stiano bene, che semplicemente siano ancora vivi. Non si sa
esattamente nemmeno il numero di queste persone: c’è un dato indicativo
su un monumento a Kiev, una grande pietra con su scritto che è dedicato
alla memoria di 500.000 soldati che hanno lavorato alla centrale di
Cernobyl. Quando sono stati ultimati i lavori di costruzione del
Sarcofago si è fatta una riunione a cui hanno partecipato i Liquidatori
e i soldati dell’esercito. È stato incredibile, perché un alto
ufficiale, rivolgendosi a loro li ha chiamati per la prima volta con il
loro vero nome: «Io vi ringrazio» ha detto, «ringrazio voi che siete dei
robot: robot Vanja, robot Petja...». Li ha chiamati robot, ed
effettivamente lo erano stati, avevano fatto semplicemente quello che
gli era stato chiesto di fare.
Tutti
noi dobbiamo essere grati a quelle persone, perché sacrificando la
propria salute e spesso la propria vita, hanno salvato tutti noi: senza
il loro intervento le conseguenze sarebbero potute essere molto più
gravi di quelle che sono state.
Mi
inginocchio davanti alla loro memoria e mi auguro che coloro che sono
ancora vivi siano in buona salute. Sento il dovere di farlo, e di
raccontare a tutti quello che hanno fatto.
Io,
come reporter, sono stato in diversi punti del mondo e ho visto molti
avvenimenti tragici; quando torno a casa, come succede a molti reporter
dopo una spedizione, e rivedo il materiale raccolto, spesso sono
contento che il mio lavoro contribuirà a rendere nota la verità. Il
bambino ritratto in questa foto si chiama Igor, come me. L’ho incontrato
in uno dei molti orfanotrofi cosiddetti chiusi, perché erano
specializzati nell’ospitare bambini con gravi malformazioni fisiche.
Ricordo che l’istituto era strapieno, anzi, c’erano centinaia di bambini
in attesa che si liberasse un posto.
All’epoca lavoravo per la nota rivista tedesca Stern,
che fu la prima a pubblicare la foto di Igor. Ed è grazie a quella
pubblicazione che un gruppo di medici inglesi si è interessato a lui:
sono venuti in Ucraina e hanno deciso di trasferirlo in Gran Bretagna. E
lì gli hanno fatto una serie di interventi migliorando notevolmente le
sue capacità; gli hanno donato un’autonomia che Igor non aveva mai
avuto. Oggi è vivo, ed è stato adottato da una famiglia inglese. È
felice, per quanto possa essere felice una persona che vive con quei
gravi difetti fisici. Comunque ha trovato un posto nel mondo, e quando
gli mando gli auguri di Natale o per il suo compleanno, mi sento di aver
compiuto una buona azione, che per una volta sono riuscito a salvare,
facendo il mio lavoro, la vita e il destino di un essere umano in
difficoltà.
Il
lavoro di un reporter può essere utile. Anzi, sento che è proprio
questo il dovere di un reporter, e sono orgoglioso di aver compiuto la
mia missione almeno in questo caso.
E
questa è la storia di una sola persona. Nel mio libro ci sono trecento
fotografie e ognuna nasconde una storia. Potrei parlarne a lungo, anche
se ricordare mi fa molto male.
Cernobyl...
ritengo che se l’incidente fosse accaduto qualche anno prima, quando
nel nostro paese la censura era rigidissima, probabilmente nessuno
sarebbe mai venuto a conoscenza del disastro. In quel periodo si diceva
che il nostro paese stava per costruire finalmente il comunismo e niente
al mondo poteva impedire il suo passo largo verso un futuro
radioso; chiaramente l’ideologia era al di sopra di ogni senso di
responsabilità, al di sopra di ogni senso di umanità.
Poi è venuto Gorbačëv e ha avviato il processo di perestrojka; dobbiamo ringraziarlo per questo, per il fatto che ha fatto demolire il muro di Berlino e che ha tolto la cortina di ferro
tra l’Unione Sovietica e l’occidente. Però, nel 1987, sono venuto a
conoscenza dell’esistenza di una lettera molto segreta che non doveva
essere resa nota a nessuno. Leggendola ho capito che Gorbačëv ha sì
portato un cambiamento significativo, ma che allo stesso tempo era un
uomo del passato. Erano i tempi oscuri del regime comunista, e
chiaramente nemmeno lui poteva cambiare radicalmente le cose. Le
informazioni sono state censurate, si lasciava trapelare solo quello che
a parere del partito non costituiva alcun pericolo all’ideologia.
Purtroppo è così anche oggi: ci sono ancora politici che si permettono
di decidere quello che può essere detto e quello che non deve essere
detto. Mezza verità, mezza menzogna.
Un’ulteriore
conferma a quello che ho appena detto sulla censura è il fatto che
questo libro esce in Europa e in America ma non da noi, nel mio paese.
Chi sta al potere non vuole sapere, non vuole ammettere.
Gorbačëv
merita di avere un monumento adesso che è ancora vivo perché di meriti
ne ha molti, ma non possiamo ignorare i suoi silenzi. Io sono un
reporter, non posso né cambiare la situazione né commentarla più di
tanto, posso solo documentarla e rendere noto quello che vedo con i miei
occhi. A Cernobyl è avvenuta una catastrofe di proporzioni enormi e ad
arginare il disastro non sono state le macchine o la politica, ma gli
uomini semplici che hanno impedito alle radiazioni di fuoriuscire e
contaminare il territorio circostante. Vorrei un futuro migliore, un
futuro dove ci sia il sole, la serenità. Fino a poco tempo fa,
quando battevo i denti, non sentivo nessun suono: mi restava in bocca
soltanto il gusto amaro del piombo. E questo era causato dall’effetto
delle radiazioni.
La
tragedia di Cernobyl non ha una scadenza temporale; dobbiamo impegnarci
a mantenere vivi i ricordi, anche se ci fa male. Cernobyl è un campanello d’allarme che deve continuare a suonare. Quello che è accaduto deve servire da lezione per le generazioni future.
Sono
sicuro che l’umanità non dimenticherà, perché quello che è successo non
può essere dimenticato. Il 27 aprile ci sarà la presentazione del mio
libro al congresso degli Stati Uniti: anche lì il campanello continuerà a
suonare.
Io sono di origine moldava, e noi moldavi diciamo che siamo nati per vivere,
e questo la dice lunga sul mio atteggiamento nei confronti della vita.
Devo dire che di danni fisici ne ho avuti tanti, però ho cercato di non
badarci più di tanto. L’importante è non lamentarsi, ma vivere e
godere.
Molti
di quelli che sono stati insieme a me a lavorare alla centrale ormai
non ci sono più, altri purtroppo sono abbandonati a se stessi. Anche a
me è successo. E più di una volta. Stavo male e nessuno si ricordava
della mia esistenza, nessuno si preoccupava di alzare la cornetta e di
chiamarmi per chiedermi come stavo, come andavano le cose. Nonostante
tutto non mi sono mai lasciato andare. Ho sempre pensato positivo: solo
così sono riuscito a migliorare. E ho imparato la lezione, una lezione
che mi dà la forza di andare avanti, di costruire un futuro migliore per
me e per la mia famiglia.
Bisogna
cercare di convincersi che tutto quello che succede accade per il
meglio, solo così si riesce a superare una tragedia come quella di
Cernobyl. Non appena incominci a convincerti del fatto che stai per
morire il rischio che tu muoia aumenta. È la cosiddetta sindrome di Cernobyl.
Bisogna invece pensare positivo. E se vi capita fatevi un goccetto di
vodka, che rende più allegri. Sono convinto che avremo un futuro
migliore del passato. Per quanto mi riguarda non mi vedrete mai star
male, o lamentarmi. Ho settant’anni, una figlia che ha quattro anni e
tre mesi, e vi assicuro che voglio vederla crescere, voglio vederla
sposarsi, e soprattutto voglio conoscere il suo futuro marito.
Igor' Kostin
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