ANDREJ
Insegnante in una scuola speciale per bambini disabili a Mogilëv
Quando
è avvenuta la catastrofe ero studente di pedagogia all’università.
Frequentavo il quarto anno. Quel giorno non sono riuscito a capire cosa
fosse successo. Nessuno ci ha detto niente.
Qualche mese dopo sono stato mandato come specialista in una zona contaminata nella regione di Mogilëv e lì ho lavorato da settembre fino a dicembre del 1986. A gennaio sono partito per fare il militare; mi hanno mandato in Kazachstan.
Ricordo
ogni cosa di quel periodo. Nel villaggio in cui sono stato mandato
tutti i maestri erano stati spostati, evacuati, ma i bambini no, non
tutti almeno. I villaggi vicini erano entrati a far parte dell’elenco di
contaminazione ma quel piccolo villaggio no; era, non si sa perché,
considerato una zona pulita. Per questo motivo i bambini da lì sono
stati trasferiti soltanto a dicembre. In realtà la maggior parte dei
maestri che lavoravano in quel villaggio, e che avevano il dovere di
restare con i bambini, sono scappati perché avevano paura. Così noi
studenti siamo andati lì per sostituirli.
Ho dei ricordi terribili. Tutto il terreno era coperto da uno strato simile alla corteccia di una quercia.
Quando camminavi per strada la terra faceva un rumore molto strano,
sembrava di avanzare su un telo di plastica. E poi il colore... tutte le
strade erano colorate. Vi posso raccontare una storia: noi lavoravamo
in quel villaggio ma per prendere lo stipendio dovevamo spostarci e
andare in un paese che si trovava a una decina di chilometri di
distanza. Per arrivarci bisognava attraversare altri villaggi, e
perlopiù si trattava di località abbandonate. Ed è lì che mi sono reso
conto che la gente era stata trasferita in fretta e furia: avevano
lasciato praticamente tutto. Per esempio le galline; quei villaggi erano
pieni di galline; ho notato un’aggressività enorme in quegli animali,
erano diventati, nel giro di poco tempo, selvaggi e combattivi. E non
solo le galline, ma anche tutti gli altri animali.
Probabilmente erano affamati.
Sicuramente,
però, la cosa strana è che eravamo in autunno e nei prati c’era
abbastanza cibo; nessuno aveva provveduto al raccolto. Ricordo che nel
villaggio dove lavoravo gli edifici venivano lavati interamente con
acqua e sapone; la terra che consideravano contaminata invece la
prendevano e la portavano via, o facevano un buco molto profondo e la
seppellivano. Seppellivano la terra sotto altra terra! Anche gli animali
subivano la stessa sorte: non venivano uccisi, ma sepolti ancora vivi.
Nell’aria c’era un odore indescrivibile.
I bambini sentivano se stessi persi,
non riuscivano a capire, erano arrabbiati; non proprio arrabbiati, è
che non capivano come mai loro erano rimasti in quelle condizioni. Ci
interrogavano continuamente sul futuro. Volevano sapere cosa gli sarebbe
successo. Noi non potevamo fare altro che mettercela tutta per
trasmettergli gioia, per farli sorridere. Cercavamo di tenerli più tempo
possibile all’interno della scuola sia per tenerli lontani dalle
radiazioni sia per distrarli e farli divertire. È molto doloroso
ricordare.
Però serve. Gran parte delle persone con cui abbiamo parlato ci ha detto che tutto questo rischia di essere dimenticato.
Vi
racconto un’altra storia: quando i bambini sono stati caricati sui
pullman per essere evacuati, i loro genitori se ne stavano in disparte a
piangere. E i bambini piangevano a loro volta nei pullman. Le persone
avevano il terrore che quei bambini, dopo lo spostamento, non sarebbero
mai più stati ritrovati.
Come è cambiato, dopo Cernobyl, il rapporto con la vostra terra?
Purtroppo Cernobyl
ha tolto a molte persone la propria patria. L’evacuazione ha portato
molta gente in posti sconosciuti dove non avevano né un ruolo sociale né
una propria identità.
Per
quanto riguarda la terra il problema è sostanzialmente uno solo: e cioè
che si è continuato a produrre nelle zone contaminate. Dopo l’incidente
nessuno è stato attento come sarebbe servito. La gente ha continuato a
mangiare prodotti contaminati per troppo tempo. Quello che producevano
dovevano consumare. Così sono andate le cose. Adesso che è passato molto
tempo se ne parla raramente... e tutto questo rischia di essere
dimenticato.
I fatti forse, ma l’uranio no.
La
popolazione, nel nostro paese, è molto malata. Come sono deboli i
nostri bambini! Mi riferisco anche ai miei bambini. E tutto questo anche
se viviamo in una zona abbastanza lontana da Cernobyl. Anche vent’anni
fa qui la situazione era migliore.
Che intende dire?
Che
nel villaggio dove sono stato mandato come specialista il pericolo era
visibile. Qui non lo è mai stato. Lì tutto era colorato. Vi faccio un
esempio: se cadeva la pioggia, l’acqua nelle pozzanghere dopo un po’
diventava rossa. E poi, invece di evaporare, l’acqua si seccava e
formava una specie di strato plastico. Quando ci mettevi un piede sopra
faceva rumore, scricchiolava. Qui, invece, sembrava che non fosse
successo niente.
Vi siete trovati a combattere con un nemico quasi invisibile.
È
così. Inoltre questa invisibilità è stata sostenuta dal silenzio. Al
tempo dell’incidente era ancora l’epoca dell’ex Urss e tutto è stato coperto dal silenzio.
Tutto era un mistero, un segreto. Adesso fortunatamente siamo più
informati, anche per quanto riguarda il passato. Non serve a molto. Il
passato non si può cambiare. Tutti siamo stati colpiti. Anch’io. Ero un
giovane studente che viveva in una zona abbastanza pulita ma che è stato
spostato in una contaminata con l’inganno. Non mi hanno neanche mai
ripagato dei rischi che ho corso. A quel tempo era da poco morto mio
padre. Eravamo rimasti soli: io, mia madre e i miei due fratelli. Non
avevamo redditi. È per guadagnare un po’ di soldi e per finire gli studi
che ho deciso di andare.
Adesso come va?
Così
così, ma grazie a Dio ho due bellissimi figli. Bellissimi! Grazie a Dio
finora tutto procede bene, anche se nessuno sa che succederà con le
prossime generazioni.
Lei sapeva i rischi che correva, a cosa andava incontro?
No.
Ed è dura ammetterlo. Comunque nelle nostre università di pedagogia
sono pochissimi i maschi. Se non fossimo andati noi sarebbero dovute
andare le ragazze. Se non andavo io sarebbe andato qualcun altro o,
peggio ancora, qualcun’altra. Per noi maschi è sempre più facile. Che
avrebbero potuto fare le ragazze in un posto sconosciuto? Inoltre per
loro sarebbe stato pericoloso: in quelle zone gli uomini avevano
iniziato a bere in modo impressionante...
È vero che bere era consigliato dalle autorità?
Sì,
lo consigliavano. Tutti bevevano senza misura, era spaventoso. I negozi
erano letteralmente pieni di alcol. Anche perché a tutti noi lo stato
pagava trenta rubli, che era una somma abbastanza cospicua. Il popolo
chiamava quei soldi i soldi della tomba. In quel periodo le
persone non credevano più a niente. Nessuno sapeva che cosa sarebbe
successo il giorno dopo. La maggior parte semmai pensava che un domani
non ci sarebbe nemmeno mai stato.
L’alcol era dunque l’unico mezzo per combattere l’invisibilità del nemico e la mancanza di informazioni.
Sì.
Inoltre il governo aveva dichiarato che bere aiutava a pulire il corpo
dalle radiazioni, perciò… se poi si pensa che nei villaggi contaminati
non c’era nessuno con il compito di misurare la radioattività...
Dopo vent’anni quali sono i suoi sentimenti?
Non
ho rimpianti. E sono felice di aver fatto quello che ho fatto. Alcuni
dei bambini con i quali ho vissuto durante quei quattro mesi li ho poi
rincontrati qui a Mogilëv. Ogni tanto guardo le foto di quel periodo.
Sono foto rotonde sulle quali le bambine un po’ più grandi avevano
scritto “per il nostro Andrej, con tanto amore, tutte noi”. I bambini si
erano affezionati molto a noi. Eravamo costretti a farli divertire! Gli
abbiamo insegnato tantissimi balli.
Allora è così che si combatte un nemico invisibile, con il ballo!
I
bambini non possono restare seduti e immobili ad aspettare. Abbiamo
fatto il possibile e anche l’impossibile per evitare loro dei traumi.
Tutti noi cercavamo di far sembrare normale la situazione e di non
trasmettere le nostre angosce ai più piccoli.
In compenso sono sicuro che gli avete trasmesso quell’immensa forza che a voi ha permesso di andare avanti in quel periodo.
Avevo
diciassette anni, a diciassette anni non si pensa tanto al futuro. A
quell’età si guarda a se stessi come a degli eroi. Vorrei aggiungere una
cosa: il governo di allora non ci ha informato sui pericoli, è vero, ma
per i bambini hanno fatto tutto quello che si poteva fare. E in quel
periodo non c’erano neanche gli aiuti umanitari! Non esisteva il meccanismo. I bambini hanno sempre avuto cibo pulito ed era loro vietato uscire fuori dagli edifici per più di venti minuti al giorno.
Forse vi ho raccontato tutto. Ah, un’ultima cosa: ho due figli. La più piccola ha sette anni, il più grande quattordici.
Intervista di Carlo Spera
Autore: Carlo Spera
Tratto da:
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006
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