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IRINA
Residente non autorizzata
Irina
e il marito, residenti non autorizzati della zona di esclusione a meno
di cinque chilometri dall’impianto nucleare di Cernobyl, non ci
aspettavano. Nessuno li aveva avvisati che due ragazzi italiani
sarebbero andati da loro. Nel momento in cui ci presentammo alla donna
avrei voluto scusarmi, accusare di superficialità la nostra guida, ma
quando vidi il suo sorriso capii che dovevo star zitto.
Ci
accolse con un abbraccio, poi ci invitò a entrare nella sua proprietà.
Il marito, disse, non avrebbe avuto niente in contrario. Seguimmo la
donna, che poteva avere un’ottantina d’anni, all’interno del cortile
della sua casa e ci sedemmo all’ombra su una panca di legno in silenzio.
Dopo un po’ arrivò il marito della donna, un uomo alto e robusto con la
barba di un paio di giorni. Quando anche lui prese posto sulla panca
vicino a noi fu chiaro che Irina poteva iniziare a raccontare.
«Sono
ormai parecchi i morti. Prendevano l’acqua là, poi, sono morti… e
quella cuoca, anche lei andava lì e anche lei è andata a morire. E dopo è
venuto il turno degli altri… hanno vissuto per un po’, poi anche loro,
poverini, sono morti… e anche i cani che bevevano l’acqua nelle
pozzanghere sono morti. La gente moriva più o meno di continuo. Che
altro dirti figlio mio? Sai, dicono che tutta quella roba sia andata
verso la Bielorussia… e altrove… lo so perché da quando ho comprato l’antenna posso vedere in televisione molte più cose.
Vivo
qui da tutta la vita… da tutta una vita. Non ho mai lasciato questo
posto. È passato un po’ di tempo… tre giorni… non ci hanno detto la
verità… e non dicendo come stavano le cose, quelli non ci hanno messo
nella condizione di poter decidere se… e noi, da soli, non sapevamo la
strada per andar via da tutto questo.
Prima
c’erano più di quattrocento case qui intorno. Quelli che lavoravano a
Cernobyl avevano comprato casa a Pripjat’ per loro e anche per i loro
figli. Circa trenta famiglie si erano trasferite lì.
Sono
venuti in tanti qui da noi, per la cronaca… tutti ci hanno detto
qualcosa, mica hanno detto granché… hanno fatto tanto clamore ma intanto
la gente ha continuato a stare qui e a morire. Quel tipo di interesse
non ci è mai piaciuto, è che non l’abbiamo mai capito.
Mio
figlio vive a venti chilometri da Kiev. Viene raramente, tutto il tempo
sta al lavoro, e poi mia nipote ha avuto un cancro. Mi dice: “Sì
nonnina, quando possiamo vogliamo venire da te”. Però anche la mamma,
dopo l’operazione della figlia, è dovuta restare in casa per un bel po’
di tempo… ancora adesso non è facile… loro aspettano di andare in
pensione… poi si vedrà. Sai, è stata un’operazione molto difficile, era
una formazione tumorale molto brutta e per l’intervento, molto costoso, è
stato necessario l’aiuto economico di un’altra nipote. Lo sai no, che
queste cose si trovano soprattutto nelle persone giovani! Durante
l’intervento questa formazione tumorale è scoppiata e ha provocato
un’infezione pericolosa; hanno dovuto ripulire tutto, ma poi la ragazza
ha avuto una serie di altre complicazioni. Adesso è molto vulnerabile a
ogni tipo di infezione… per lei è rischioso anche un semplice
raffreddore. Ha vent’anni, e ha sofferto già tanto nella vita. Anche il
suo ragazzo. Era uno sbandato, beveva, forse si drogava… poi la mamma ha
aiutato la figlia a separarsi da lui. Adesso mia nipote ha una casa e i
genitori le hanno comprato anche una macchina… è andata così.
Sì,
certo, fotografami pure, che la gente sappia, anche con il mio Nonno.
Sai, siamo insieme da cinquant’anni. Sarebbe bello festeggiare le nostre
nozze d’oro ma… oh, la vita passa. Caro mio, abbiamo tante belle mele,
ciliegie, susine, e poi quanto sono buoni i nostri lamponi. L’anno
passato i frutti erano così tanti che alla fine sono caduti… è che siamo
rimasti solo in due, noi due soli.»
Quando
Irina, residente non autorizzata, terminò il suo racconto, non potemmo
fare altro che ringraziarla del tempo che ci aveva concesso.
Lei ci prese tra le braccia, augurandoci una buona vita
e di fare un sacco di bambini. Il marito non disse niente; con il
sorriso sulle labbra ci accompagnò fino al cancelletto dal quale eravamo
entrati solo pochi minuti prima. Aspettò che lo oltrepassassimo, poi lo
richiuse adagio e raggiunse la moglie.
Rimasi
fermo a guardarli fino a quando, insieme, arrivarono alla fine del
cortile e furono solo due puntini che andavano perdendosi tra i campi.
L’incontro
era durato solo pochi minuti, eppure sentivo di aver vissuto un
frammento importante della mia vita. Non tanto per il fatto di aver
raccolto una testimonianza di grande interesse, ma perché la nostra
presenza lì era stata per Irina la prova tangibile dell’esistenza di un
altro mondo. E noi eravamo stati i rappresentanti inconsapevoli di quel
mondo, un mondo a cui anche lei un tempo era appartenuta e che, da quasi
vent’anni, l’aveva dimenticata.
A
un tratto cominciai a sentire freddo nella calura pomeridiana e fui
quasi felice quando Fëdor disse che dovevamo andar via. Salii in auto e
indossai la maglia che avevo lasciato sul sedile posteriore pensando che
non mi sarebbe mai servita. Metterla non mi diede alcun sollievo. Il
gelo continuò a farsi sempre più intenso, un gelo che, me ne rendevo
conto, non veniva dall’esterno, ma da dentro di me.
Autore: Carlo Spera
Tratto da:
“Viaggio al termine della notte.
20 anni dopo l'esplosione della centrale di Cernobyl”
Casa editrice: ViediMezzo
Data: 2006
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