MAMMA
RUSSA TROVATA
Ricorderò sempre la prima volta in cui
ho visto Katja.
Lei e Andrej sono venuti a prenderci,
a recuperare le tre italiane del turno di luglio alla stazione di Uneča. Elena,
Jelena ed io eravamo atterrate solo tre giorni prima, ed ecco che ci spostavamo
di nuovo. Dopo circa undici ore di treno notturno da Mosca, la provodnica ci sveglia, puntuale come un
orologio svizzero, anzi prima delle nostre sveglie. Questo donnone corpulento
dai modi un poʼ bruschi responsabile del nostro vagone ha preso davvero a cuore
il fatto che non saltassimo la nostra fermata. Scendiamo
dal treno, palesemente disorientate, assonnate e con valigie al seguito e non
incontriamo subito i nostri ospiti, perché abbiamo inavvertitamente comunicato
il numero della carrozza sbagliata.
Quando i pochi passeggeri si
allontanano dalla silenziosa stazione prendendo direzioni diverse, li vediamo
venirci incontro, lui uno spilungone magro dallʼaspetto autorevole e lei una
bambolina di porcellana. Tentiamo di conversare in russo, ma siamo stanche, non
sono neppure le sei, eppure è già chiaro come in pieno giorno e sulla strada
verso il campo scorrono file di alberi altissimi da una parte e dallʼaltra. Una
volta arrivati, Katja ci mostra la nostra stanza, le casette di legno in cui
vivranno i bambini delle sette famigliole in arrivo il pomeriggio stesso, i
bagni e le docce, che sono abbastanza lontani dal nostro quartier generale.
I primi giorni sono difficili, capiamo
poco perché gli animatori russi e i responsabili parlano molto e veloce, ma poi
riusciamo ad inserirci nella vita del campo. Chi ha più pazienza con noi sono i
bambini, in particolare Nikita, che si offre di spiegarci e di ripetere, anche
mille volte se necessario.
La giornata è organizzata secondo uno
schema più o meno fisso, corsi vari la mattina e un gioco a tema tutti insieme
il pomeriggio, la sera discoteca (che piace molto ai più piccoli) oppure uno
spettacolo in cui si succedono i numeri preparati dalle varie famigliole. Mi ha
colpito molto lʼimpegno dei vožatye,
i responsabili delle casette, quasi tutti appena diciottenni con unʼenorme
responsabilità, e lʼentusiasmo dei sotrudniki,
gli organizzatori dei corsi, sempre pronti a travestirsi per gli eventi a tema
o a correre da qualche parte.
Noi italiane siamo responsabili di
attività come corsi di lingua e di arte, io tento qualche lezione di yoga,
anche se la vera insegnante è Maša, unʼadorabile vožataja con la quale in qualche modo riesco a fare amicizia. Ci
divertiamo molto nel vedere come la piccola Varvara sia lʼunica a prendere
seriamente le mie indicazioni e faccia grandi sforzi accompagnati da
altrettante smorfie per rimanere in equilibrio sulla sua testolina, con le
gambe che scalciano in alto. Durante spagnolo invece Liza, prekrasnaja blondinka che alloggia con Nikita nella terza casetta,
mi confida il suo sogno di fare lʼinterprete e di vedere il mondo. Cʼè Denis,
un bimbo della prima semejka, che
frequenta puntualmente tutte le mie “lezioniˮ ed
incoraggia persino gli altri a prendere parte.
Ci affezioniamo praticamente subito ai
bambini di Novokemp. È bello capire ogni giorno di più, riuscire a confrontarsi
con loro, vederli la mattina dalla nostra finestra al secondo piano che
puliscono e sistemano il territorio intorno alla propria casetta, mentre noi ci
siamo appena svegliate, probabilmente per aver fatto troppo tardi unʼaltra
volta.
Sì, perché spesso i nostri
responsabili hanno ospiti e si comportano da perfetti padroni di casa, facendo
trovare la tavola imbandita anche alle due di notte. Ho percepito lʼimportanza
di questa tradizione sorseggiando il tè, in unʼatmosfera che conserva tracce
del rito antico, nonostante molti preferiscano prendere il caffè.
Cʼè qualcosa di sospeso, come un
tacito accordo condiviso, nel prendere posto in cucina e, tra una scatolina di
dolcetti e lʼaltra, animare a turno la conversazione. Non cʼè il samovar, ma
una sensazione precisa che provi nel portare tutte quelle tazze da lavare alla stolovaja.
Novokemp è casa, non per una banale
retorica ritrita, ma perché lo diventa in ogni gesto quotidiano, come ritirare
il proprio piatto dopo aver finito, come lavare trusiki e noski (mutandine
e calze) passandosi lʼacqua a turno. Noi, per fortuna, possiamo contare sulla
lavatrice riservata ad animatori e responsabili, che ci permette di evitare di
suscitare lʼilarità generale, come quella volta in cui io ed Elena tentiamo di
fare da sole e confondiamo il secchio per il risciacquo con quello dellʼacqua
sporca.
Abbiamo chi si occupa di noi: il primo
giorno Katja ci illustra le regole del campo e noi prendiamo appunti. Non è
sempre molto chiara e a volte dimentica di dirci qualcosa, ma si preoccupa
costantemente del nostro stato fisico ed emotivo.
Katinka è un tipo molto allegro.
Sorride quando ci incrociamo prima di colazione, e spesso la sua bocca dipinta
di rosso scuro scoppia in una fragorosa risata. La malinconia di una sofferenza
non pienamente espressa balena a volte nei suoi occhi brillanti, senza mai
riuscire ad oscurarli per più di qualche secondo. È molto gentile e amichevole,
preferisce ascoltare piuttosto che parlare.
Lascia il campo prima della
nostra partenza, è necessario andare a Mosca e sistemare tutti i documenti che
serviranno per il Giappone, dove trascorrerà il mese di agosto tra conferenze e
seminari in cui avrà lʼoccasione di trattare il tema di Černobyl. Ci sarà un
interprete, ma è preoccupata, fa delle prove con noi, e il nostro miscuglio di
russo e inglese ha un che di insolitamente familiare. Elena si offre di
regalarle un elenco di lessico quotidiano, in cambio di uno con gli equivalenti
russi, la incoraggia, tutte le auguriamo buona fortuna.
Ci separiamo in un pomeriggio non più
così caldo, e non toglie gli occhiali da sole, mentre lei e Serëža si
allontanano sullʼauto guidata dal figlio di Anton.
Con Katja se ne va anche il nostro
turno, ma, ripensando al tesoro di esperienze fatte, non siamo più così tristi.
Giulia Moioli