Ogni anno, con l'avvicinarsi dell’anniversario della catastrofe radioattiva di Cernobyl i bielorussi si ricordano dove vivono, quello che mangiano, per che cosa si curano e chi in famiglia non c’è più.
Di tutto questo io non ho modo di dimenticarmene, come d’altronde molti altri bielorussi ai quali Cernobyl ha lasciato per tutta la vita il proprio marchio nell’organismo. Ma di queste cose chissà perché in pubblico non se ne parla. E a noi non ci racconta niente nessuno. In casa dell’impiccato non si parla della corda! – recita la saggezza popolare. D’altra parte, a cosa servono racconti, confronti, analisi se ancor’oggi non ci sono meccanismi giuridici in grado di dimostrare che tu sei rimasto vittima proprio di quella sciagura, che sei stato colpito proprio dai depositi di quella nube e dallo iodio radioattivo di Cernobyl? E la cosa è sorprendente, in quanto esistono metodi medici, scientificamente fondati, che permettono di diagnosticare l’effetto delle radiazioni sull’organismo in presenza di specifiche aberrazioni cromosomiche.
Ce n’è anche un altro di detto popolare: «Non portar fuori la spazzatura dall’izba». Ecco, i bielorussi, gli ucraini e i russi tengono tutto sotto silenzio nelle proprie izbe per «non esagerare le proporzioni», «non seminare panico», «non mettere il dito nella piaga» e non intralciare le autorità nel costruire nuove e nuove Cernobyl.
Io ero ancora una studentessa quando successe Cernobyl e allora non capivo bene perché non si dovesse andare alla manifestazione del 1° maggio del 1986. Un anno dopo però insieme a un’amica decidemmo di non andare a raccogliere le patate nella regione di Mogilëv. Non è che allora avessimo proprio chiaro che cosa esattamente ci aveva trattenuto, ma un qualche presentimento interiore influì sulla nostra decisione. Dopo dieci giorni di lavori agricoli tutto il nostro gruppo tornò indietro. Ci convocarono tutti. Io e la mia amica, munite di un certificato sullo stato di salute, venimmo portate ad esempio come le studentesse più intelligenti dai rappresentanti del rettorato. Venne fuori che i nostri compagni di corso avevano raccolto patate con i respiratori, gli stivali e i guanti di gomma nei terreni contaminati da Cernobyl dove non ci si sarebbe dovuti trovare. «Perché allora non siete venuti via, quando l’avete saputo, voi dovete ancora fare dei bambini?» – chiesero ai miei compagni di classe. «Avevamo paura» – fu la risposta.
In Bielorussia l’anno scorso non è stata permessa la proiezione del film Di sabato, il quale racconta proprio di questo, del perché le persone non andarono via, del perché facevano finta che non fosse successo niente e del perché ancor oggi ci comportiamo piuttosto stupidamente.
Poco più di vent’anni fa a degli amici dei miei genitori morì un vicino di casa. Un comune poliziotto sovietico, il quale ebbe in sorte di diventare un liquidatore. Egli visse alcuni anni strazianti e tutte le parole di speranza in un miglioramento e sui risultati delle cure per lui erano vuote perché, immobilizzato a letto, sofferente per il fatto che lo vedessero in quello stato i figli e la moglie, lui lo sapeva bene che oggi stava peggio di ieri e che domani sarebbe stato peggio di oggi.
La moglie di un altro poliziotto liquidatore, sopravvissuto fino ai nostri giorni, oggi si fa in quattro da un’istanza all’altra senza poter dimostrare che le malattie di suo marito sono collegate a Cernobyl. Lei non riesce a capire perché a loro non spettino i sussidi e le medicine gratuite; e suo marito, gravemente malato, soffre anche per la consapevolezza di questa terribile ingiustizia. Questa donna mi telefonò lo scorso anno, raccontandomi in modo molto dettagliato e un po’ confuso di come lei scrivesse al ministero della Sanità, cercasse di ottenere la verità, perché i giornali non volevano saperne di questo e nessuno alla fin fine aveva pubblicato la sua storia.
Un guardiano di un’impresa per la quale avevo lavorato più di dieci anni fa una volta rispose a una domanda che mi girava nella testa. Ero curiosa di sapere perché lui, come il vecchio Chottabyč della favola, avesse tutti i denti d’oro. Io, si capisce, non gliel’avevo mai chiesto direttamente. Fu lui a raccontare che durante il servizio militare venne mandato a Cernobyl. «Quando tornai da là dovetti sputare tutti i denti nel cesso!» – questa fu la sua spiegazione. Ma chi mai dirà se è stato a causa di Cernobyl o meno?
Ivan Nikolaevič Nikitčenko, una delle personalità più importanti nel mondo della scienza bielorussa, foss’anche solo per il fatto che fino alla fine della sua vita avesse svelato alla gente la tremenda verità sulle conseguenze di Cernobyl, sui pericoli del cosiddetto “atomo pacifico”, è morto nel 2010 in un incidente automobilistico. Perse il controllo della guida. Aveva poco più di settant’anni. Come in seguito raccontarono sua moglie e suo figlio, Ivan Nikolaevič soffriva di vari acciacchi, anche se non amava parlarne molto. Anche lui fu un liquidatore di Cernobyl, uno dei primi.
Di liquidatori non ne sono rimasti molti. Uno di loro è il professor Georgij Fëdorovič Lepin. Ha più di ottant’anni e oggi lotta non solo con le conseguenze di Cernobyl ma anche con la nuova centrale nucleare che vogliono costruire in uno dei posti più belli e incontaminati della zona dei laghi di Naroč’-Vilejka.
Non mi sarebbe neanche potuto venire in mente una decina-ventina d’anni fa, quando erano ancora in vita molti di coloro che avevano liquidato le conseguenze dell’incidente, che sarebbe arrivato un giorno in cui avrebbero cominciato a curarci non dalle malattie prese grazie a Cernobyl ma dalla… radiofobia! Non avrei potuto immaginarmi neanche nel più terribile dei sogni che un politico bielorusso, una delle massime cariche dello stato, avrebbe detto un giorno che le conseguenze di Cernobyl vengono esagerate e che nelle terre contaminate si può tornare a vivere.
Ma da quale radiofobia cerchiamo di liberarci, noi e i nostri posteri? Non stiamo forse con questo oltrepassando ogni limite ammissibile? Perché sapere del pericolo e tacerlo è criminale. E se invece non fosse così, se nascondere la verità non fosse criminale, allora bisognerebbe lottare pure con la sifilide-fobia, con la aids-fobia! E che farne allora delle particelle incandescenti fuoriuscite dal reattore di Cernobyl? Chi raccoglierà queste particelle dai campi delle Bielorussia e li ripulirà dal plutonio, dannoso per tutti gli esseri viventi per 24 mila anni? Se nessuno le raccoglierà, allora criminale è affermare che le conseguenze di Cernobyl sono terminate e non informare su di esse le generazioni future!
In passato non mi veniva il desiderio di scendere in strada, nemmeno quando successe Cernobyl. Evidentemente dopo la manifestazione del 1° maggio del 1986, che fu la nostra “marcia di protesta”, come diremmo oggi per scherzare. Ma dopo la decisione di costruire una propria centrale nucleare in Bielorussia improvvisamente ho compreso che continuare a tacere non ha più senso.
E sono contenta del fatto che il tradizionale corteo “Il cammino di Cernobyl” (Чернобыльский шлях) quest’anno a Minsk per il 26 aprile lo si sia pianificato come un evento esclusivamente pacifico, dove la gente potrà discutere le questioni più importanti – come superare le conseguenze di Cernobyl e come proteggere i bielorussi dalla peste nucleare.
Data: 19.04.2012
Fonte: www.echo.msk.ru
Autore: Tat’jana Novikova
Traduzione: S.F.
Link al file PDF dell'articolo:
Nessun commento:
Posta un commento